giovedì 30 agosto 2018

La Casa delle Lapidi


A Bousson, presso la Valle Argentera, ci si imbatte in un misterioso edificio costruito nel 1600 e recentemente restaurato. Non se ne conosce il significato né la sua funzione, e non si sa chi lo abbia costruito e il perché.
E’ la Casa delle Lapidi, una costruzione interamente decorata appunto da lapidi realizzate da ignoti artigiani, evidentemente esperti nell’arte della scultura in pietra, che hanno voluto lasciare una testimonianza di trascendenza con frasi che sollecitano a una vita ascetica e a riflessioni sul senso dell’esistenza.
Le lapidi marmoree, non funerarie, portano incise delle epigrafi scritte in francese colto recanti un messaggio spirituale che esorta a riflettere sul vero senso della vita e sul valore del trascendente in attesa della morte. Ecco un esempio:
« . . . EN VIEUX  TU MOURRAS!  A QUI SERONT  TE BIENS? IMPUDIQUE! QUE TE SERVIRONT TES PLAISIRS? IMPITOYABLE! QUI TE FERA MISERICORDE? INSENSIBLE! OU SERA TA DEMEURE ETERNELLE ? »  “Da vecchio tu morirai! A chi andranno i tuoi averi? Impudico! A cosa ti servirannoi tuoi piaceri? Impietoso! Chi ti portera misericordia? Insensibile! Dove sarà la tua dimora eterna?”
Frasi che non possono lasciare indifferenti, anche per il tono di urgenza che vi si coglie. Del tipo: “SVEGLIATI, la tua vita in questa dimensione è a termine. Che senso ha impegnarti così tanto in tutte quelle cose che non ti porterai dietro e che non ti serviranno al momento del trapasso?”
E’ un incitamento inquietante e allo stesso tempo liberatorio, che nulla ha a che fare con un messaggio religioso anche se apparentemente lo può sembrare. Pone degli interrogativi, mentre le religioni al contrario sono pronte a fornirci una serie di soluzioni per pianificare non solo il nostro percorso terreno, ma anche la nostra vita nell’aldilà.
Ecco perché questa Casa delle Lapidi non è stata ricondotta ad un messaggio della chiesa cattolica.
Nel museo inaugurato dal Comune di Cesana e dalla Regione Piemonte nel 2016 si ipotizza che questo edificio fosse un rifugio di eretici. Convento di monaci, romitorio valdese, lazzaretto, le ipotesi sono tante. E’ un dato di fatto che in quell'area vi furono violenti scontri di natura religiosa, tra cattolici e valdesi. Una delle teorie è che l’edificio sia stato costruito dal movimento giansenista, nome che deriva dal suo fondatore Giansenio (forma italianizzata del nome di Cornelius Otto Jansen, 1585-1638), teologo olandese, condannato postumo dall'Inquisizione nel 1641.
Il giansenismo, partito come movimento spirituale, ha infuenzato ben presto anche l’etica, la politica ed è stato ispirazione per pratiche di religiosità popolare, perseguite dall’Inquisizione. Il fenomeno si è manifestato in Francia e in Italia, influenzando anche la politica. La Chiesa cattolica ha condannato la dottrina giansenista bollandola come eretica e vicina al protestantesimo.
La filosofia giansenista appare molto vicina a quella dei Catari, antico movimento spirituale che si è diffuso in molte zone dell’Europa e molto presente anche nel Nord Italia.
In effetti la Casa delle Lapidi  si trova in una zona che era territorio dei Catari.
Le decorazioni incise sulle lapidi riconducono a una scuola particolare che ruota intorno a una figura misteriosa definita il Maestro di Bousson.
Chi era il Maestro di Bousson?
L’ultimo dei Catari?

lunedì 27 agosto 2018

Il rapporto con le altre specie


Viviamo in un momento di barbarie nonostante ci venga prospettata la storia dell’umanità come un percorso in evoluzione. Le nuove tecnologie, le conquiste sociali, il superamento delle guerre in cui morivano milioni di persone ci possono far credere di vivere in un’epoca civile.
Ma la realtà è tutt’altro che così.
La prova la abbiamo nel trattamento che riserviamo alle altre specie che convivono con noi sul pianeta. E’ questa la vera cartina di tornasole. Fintanto che ci saranno altre specie usate, torturate, uccise per il nostro tornaconto non potremo considerarci una società civile. E’ uno spartiacque che può essere usato anche per misurare la qualità dei rapporti tra le persone, o quantomeno, per instaurare rapporti reali, basati sul confronto con principi che dovrebbero essere imprescindibili.
Sei un cacciatore? Ok, rispetto il tuo modo di pensare ma lo combatto. Sei un sostenitore della corrida? Ok, non ti auguro di fare la stessa fine del toro nell’arena, ma cercherò di fare di tutto perché la corrida venga abolita. Rapporti chiari, insomma, senza falsi buonismi improntati sul “quieto vivere”. Fa più danni il quieto vivere di una guerra.
Purtroppo anche coloro che amano gli animali non sempre li aiutano veramente. I contrasti tra animalisti, il sentirsi “più animalista” degli altri, la continua critica verso le altre associazioni anziché guardare la propria, sono cose che non aiutano e non fanno bene alla causa. Che dovrebbe essere, sempre e comunque, l’aiuto agli animali come principio prioritario.
L’aiuto agli animali: ecco un altro bel tema di discussione. Come li si aiuta veramente? Mutilandoli indiscriminatamente, castrandoli per eliminare qualsiasi problema? Smembrando le famiglie,  dividendole anche quando si potrebbero lasciare insieme? Trasformandoli in pupazzetti tramite corsi di “educazione” per far giocare gli umani? Sottoponendoli a training assurdi per curare gli umani con la Pet Therapy? A questo proposito, perché gli umani non si aiutano tra di loro? Semplice: perché gli umani non si sopportano. Molto meglio un cane o un gatto che ti sopporta e ti accetta comunque e che fa qualsiasi cosa per farti contento. Non perché sia deficiente, ma perché è costretto a farlo.
Tra gli esseri umani ci sono molte persone sensibili che dedicano la loro vita all’aiuto agli animali. Un numero incalcolabile di volontari che con un’azione incessante ed encomiabile si affannano a tutelare gli animali, li curano, li nutrono, puliscono le loro cucce. Eppure tutto questo non basta. Nonostante la sempre maggiore sensibilità verso il problema animali, ogni giorno milioni di nostri fratelli animali non-umani sono tenuti come schiavi negli allevamenti intensivi in condizioni insopportabili. Ogni giorno vengono uccisi nei macelli, vengono vivisezionati, vengono privati di qualsiasi dignità. Fortunati quelli che vengono aiutati e tutelati, ma gli altri? È come cercare di svuotare il mare con un secchiello.
Questa situazione di totale abbrutimento, che porta anche l’essere umano a perdere la sua dignità, cambierà solo a patto di compiere un vero salto di mentalità.
Siamo di fronte all’abominio più grande della storia. A un’azione di crudeltà e sterminio che non ha eguali nella storia dell’umanità. Un’azione che non ha mai fine, che produce ogni giorno milioni di nuovi schiavi con l’obiettivo di sfruttarli e ammazzarli.
Se non ce ne rendiamo conto, vuol dire che siamo obnubilati, ipnotizzati, convinti che sia giusto così. Probabilmente è quello che pensavano anche i “benpensanti” all’epoca degli schiavi.
Un giorno l’attuale condizione degli animali verrà ricordata come la più grande vergogna della storia. Un giorno i mattatoi diverranno il simbolo della più importante battaglia di civiltà compiuta dagli umani.
Ma questo avverrà solo se si farà tutti insieme un grande passo: quello di lottare contro la mentalità che ci fa considerare “normale” l’attuale situazione degli animali non umani sul pianeta Terra.

giovedì 23 agosto 2018

Alla ricerca di Rama


Inseguendo una leggenda mi trovo spesso in posti impervi, tra percorsi difficili alla ricerca delle tracce che un antico mito ha lasciato dietro di sé. Le tracce ci sono, e sono tante.
La leggenda è quella della città di Rama, un mito che si tramanda nella storia dei Celti di “casa nostra”, ma non solo.
Secondo le Famiglie Celtiche del Nord del Piemonte, in tempi arcaici esisteva Rama, un’antica città megalitica, che si estendeva per tutta la Valle di Susa e  anche Oltralpe. Le tracce di questa leggenda sono visibilissime per chiunque voglia andare appena un po’ oltre la miopia degli archeologi “skeptics” che bollano questi ritrovamenti come cose poco interessanti ai fini di una ricerca archeologica. Miopia o qualcos’altro? Supportare a tutti i costi la storia ufficiale, quella balla che ci viene insegnata a scuola? Tipo che Colombo avrebbe scoperto l’America… Anyway, secondo il mito, ricordato tra l’altro dai Popoli nativi di tutto il pianeta, un dio proveniente da non si sa dove sarebbe sceso sulla Terra e avrebbe lasciato dei doni alle creatura di allora. Doni che li avrebbero aiutati ad evolvere e a costruire una grande civiltà. Il mito è ricordato nella leggenda greca di Fetonte e in quella del Graal. Secondo il mito, questo dio civilizzatore, prima di lasciare gli uomini, avrebbe lasciato in dono una grande ruota d’oro forata, contenente tutto il sapere, sia mistico che tecnologico.
Il contatto sarebbe avvenuto nella Valle di Susa, dove a seguito di questo dono sarebbe sorta una grande città ciclopica, Rama appunto.
Tutto questo sembra ricordare una favoletta per bambini, sennonché nel 2007 un gruppo di ricercatori indipendenti della Ecospirituality Foundation ha trovato i resti delle antiche mura, togliendo Rama dalla leggenda per inserirla nella storia.
La ricerca delle tracce megalitiche di Rama è una delle mie attività preferite. Io e i miei compagni di avventura Luca e Gianluca siamo di solito premiati nelle nostre escursioni da scoperte che non si fanno mai desiderare, ancorché di difficile reperimento.
L’ultima spedizione ci ha portato a contatto con quello che abbiamo definito il “Santuario delle Ruote Solari”. Quelle che comunemente vengono definite “macine” si trovano in grandi quantità in tutte le Valli piemontesi, e anche in questo caso c’è da notare la miopia degli archeologi “ufficiali” che trovano perfettamente plausibile che queste grosse “macine” di pietra venissero costruite sui soffitti di anguste e pressochè irraggiungibili grotte. Come nel caso della Roca Furà, un posto incredibilmente bello anche se molto difficile da raggiungere.
Le numerosissime ruote solari che si ritrovano in  tutte le valli del Piemonte sembrano ricordare il mito di Fetonte. Nella grotta della Roca Furà ce ne sono decine, all’entrata, sul soffitto, sulle pareti, in un’atmosfera che ricorda un paesaggio lunare.
E’ così difficile accettare o anche solo ipotizzare che questi ritrovamenti facessero parte di un antico culto?

sabato 28 luglio 2018

Gli Indigenous Peoples all'ONU


Per noi che partecipiamo da quasi vent’anni ai Forum di New York e Ginevra sui Popoli indigeni è sempre un’occasione di constatare quanto sia differente la società dei Popoli Naturali da quella maggioritaria. I Popoli naturali impostano la loro società su principi di spiritualità, rapporto con il Mistero, rispetto per Madre Terra e per tutte le creature che l’abitano,  fratellanza tra i popoli, mentre la società maggioritaria imposta i suoi valori sul profitto, macinando tutto ciò che può essere utile a questo.
Un abisso di mentalità, quindi.
I Popoli nativi sono stati decimati, gli sono state tolte le loro terre e le tradizioni, rubati i loro figli, eppure non si piangono addosso, al contrario sono stati capaci di crescere, di entrare nei sistemi dei governi, di entrare all’ONU costituendo le assemblee più vaste delle Nazioni Unite.
Alcuni degli esperti nativi che hanno creato l’Expert Mechanism on the Rights of Indigenous Peoples (EMRIP) sono persone-chiave che hanno dedicato la loro vita alla battaglia per i diritti dei Popoli indigeni.
Come ad esempio Chief Wilton Littlechild, Capo della Nazione Cree, con il quale si è ormai creato un rapporto non solo di reciproca stima e fiducia ma direi anche di affetto. Wilton è commissario della Truth and Reconciliation Commission del Canada, un progetto che vuole proporre la  riconciliazione con i loro nemici, con chi li ha sottomessi e dominati per secoli, al solo scopo di non vivere nella conflittualità. E' un'azione molto coraggiosa ma è anche frutto di una precisa strategia che vuole portare a una parità di rapporti tra società maggioritaria e società nativa.
Wilton Littlechild durante l’assemblea si è messo a nudo pubblicamente raccontando la sua esperienza personale di bambino violato e del suo processo di guarigione che lo ha portato a concepire il Reconciliation Process, una strategia e un metodo di guarigione che sta proponendo anche ad altri ex bambini che hanno subìto le stesse esperienze.
Seguendo l’esempio di Chief Wilton si è formato il Global Indigenous Youth Caucus, composto da  ragazzi nativi di tutte le Nazioni molto consapevoli e agguerriti che portano avanti un coraggioso lavoro per recuperare le loro origini, la loro storia, la loro lingua. Molti di loro fanno parte della Stolen Generation, la generazione rubata, e hanno subìto ogni sorta di violenze fin da piccoli.
Altra persona-chiave in questo processo è Julian Burger, stimato e amatissimo professore dell’Università di Essex che per oltre 20 anni ha ricoperto il ruolo di responsabile del Progetto Indigenous People dell’Ufficio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ed è senza dubbio il funzionario ONU che ha contribuito maggiormente a creare un posto di preminenza per gli Indigenous Peoples.
Incontriamo periodocamente a questi appuntamenti Kenneth Deer, Nativo Mohawk, giornalista e rappresentante della Comunità Kahnawake del Canada. Anch’egli ha dedicato la sua intera vita alla causa dei Popoli indigeni.
Ma ogni anno abbiamo l’occasione di conoscere tante altre persone con le loro storie, tranche de vie di Popoli invisibili, come Benki Piyako della Ashaninka Tribe, Amazzonia, che ha commosso tutti con il suo canto sacro intonato dal tavolo della presidenza. Benki Piyako ha raccontato i soprusi e i massacri subìti dalla sua gente, un popolo di cui fino a pochi anni non se ne conosceva l’esistenza. Un popolo pacifico che definiamo con le sue parole: “Gestiamo in maniera autonoma le nostre scorte di cibo e la nostra economia attraverso l'uso delle pratiche tradizionali e dei principi di sostenibilità che contengono. Attraverso l'educazione, la salute e buone pratiche basate sulle conoscenze ancestrali, riusciamo a mantenere l'equilibrio dell'ecosistema in cui viviamo. Questo equilibrio è conseguenza della nostra millenaria storia di vita nella foresta, in connessione con il mondo spirituale che rappresenta la connessione tra gli uomini, la Terra e l'Universo, che è la base delle nostre tradizioni.”
Eppure questa società illuminata è minacciata dal contatto con la società maggioritaria che tenta in tutti i modi di privare gli Ashaninka delle loro risorse naturali.
Tra i vari incontri che abbiamo avuto, citiamo Ben Sherman, Oglala Lakota, Presidente World Indigenous Tourism Alliance, il quale ha letto una accorata declaration stigmatizzando i danni provocati dalla Discovery Doctrine, la bolla papale del 1400 emessa dalla Chiesa cattolica che è stata l’origine di tutti i massacri e i soprusi avvenuti con le colonizzazioni. Bolla papale che non è stata ancora abolita e pertanto è tuttora in essere.
Dal canto suo, la Ecospirituality Foundation ha presentato un appello per le Comunità autoctone dell’Europa, facendo presente che esistono Comunità native anche nel Nord Italia con una loro lingua e una loro tradizione. A Dreamland, in Piemonte, la Ecospirituality Foundation ha fatto erigere un grande cerchio di pietre per dare continuità ai luoghi sacri dei Nativi europei a testimonianza della loro presenza nella storia.
L’appuntamento annuale all’ONU di Ginevra rappresenta per i Popoli indigeni una occasione per ricordare alla società maggioritaria che nonostante le colonizzazioni e le oppressioni subìte, i Nativi di tutto il mondo esistono, si uniscono e si organizzano per essere ammessi alla pari nella comunità planetaria.
Come sempre, è stata una settimana passata in un vortice. Il tempo scorreva veloce, gli eventi incalzavano intorno a noi eppure ci sentivamo fermi e stabili come al centro dell'occhio di un ciclone. Al ritorno, e anche questo è un classico, ci sembrava che fosse passato un anno.
Abbiamo salutato Ginevra con un arrivederci, perchè le cose da portare avanti sono tantissime. Ed è bello che sia proprio Ginevra ad ospitare questi eventi, del resto non a caso.
Ginevra è una città sorta su un insediamento celtico. Tollerante, laica, multietnica, rispettosa verso gli animali.

Abbiamo salutato i nostri cari fratelli Nativi con la promessa di ritrovarci qui riuniti per continuare a lavorare per il benessere dell’umanità. Per una società di pace tra gli uomini, di rispetto per Madre Terra e per tutte le sue creature. Umani e non.

venerdì 9 marzo 2018

Lo sfruttamento degli animali


Lo sfruttamento degli animali a beneficio della razza umana passa attraverso varie forme. L’apice più abominevole è quello rappresentato dagli allevamenti intensivi, dalla vivisezione, dagli animali torturati per divertire gli uomini come avviene nei circhi, nelle competizioni come i palii e nelle sagre, o nell’assurda pratica della caccia. Forme di sfruttamento che vengono universalmente condannate da tutti coloro che amano gli animali.
Ma ci sono altre forme di sfruttamento, più sottili, che vengono accettate come “normali” e anche incoraggiate.
Mi riferisco ad esempio alla Pet Therapy, o agli animali usati per trasporto come nel caso delle botticelle romane o dei cani da slitta. E anche alla moda dilagante dei corsi per “educare” i cani. Educarli a cosa? Ad essere dei bravi schiavi che rispondono al nostro comando?
Prendiamo ad esempio la Pet Therapy. I centri specializzati che propongono l’utilizzo di animali per la cura degli umani mettono gli animali alla stregua di strumenti che devono essere abilitati all’uso preposto. In molti casi li allevano apposta per quella funzione. Nelle migliori intenzioni, chi propone questo metodo terapeutico sostiene che l’animale “è contento” ed “è d’accordo”. In che modo se ne sono accertati? Hanno avuto una dichiarazione dall’animale? Una liberatoria? Ma suvvia! Gli animali per loro natura sono esseri molto disponibili, ed essendo in stato di inferiorità rispetto a noi in quanto devono sottostare alle regole della nostra cultura, sono ben disposti a collaborare. Ma che siano d’accordo a fare Per Theraphy non c’è alcuna certezza, a parte quei casi in cui sono loro, di loro spontanea volontà, ad andare dalla persona malata. In molti casi in effetti gli animali praticano una loro peculiare terapeutica, e credo che chi vive con un animale possa testimoniarlo. Ma sono atti liberi e spontanei. La Pet Therapy invece è una chiara forma di sfruttamento, nella maggior parte dei casi usata per profitto. Oltretutto gli animali usati nella Pet Therapy per essere abilitati vengono sottoposti a training complicati, in molti casi al limite del maltrattamento, per verificare la loro “docilità”.
E che dire della moda degli Sleddog? Anche in questo caso, i gestori di queste imprese commerciali  sostengono che “i cani si divertono”. Si propongono come amanti degli animali quando è evidente che gli animali sono il loro mezzo di guadagno. I cani si divertono? Come no! Li tengono chiusi in gabbia ininterrottamente per una settimana, ovvio che la domenica quando li liberano siano contenti di muoversi un po’. E vi sono casi in cui non usano neppure cani da slitta ma cani a pelo corto. Un altro caso di sfruttamento è rappresentato dalle tristemente famose “botticelle”, le carrozze a cavalli che portano in giro i turisti. Una usanza che implica turni faticosi sotto il sole anche nelle ore più calde, lavoro forzato nel traffico di punta e condizioni spesso insopportabili per questi docili animali. Un mezzo di trasporto anacronistico in cui il cavallo è solo una macchina senz’anima.
C’è poi il caso dei corsi di educazione cinofila, che in questo periodo nascono come funghi. Ora, posso capire che ci siano casi che richiedono l’aiuto di esperti, come il recupero di un animale traumatizzato. Ma questi corsi si rivolgono a qualsiasi cane, anche il più tranquillo e socievole. Educarli a cosa? A perdere la loro personalità e diventare dei bravi schiavetti che rispondono ai comandi? E’ avvilente e non dà dignità all’animale.
Potremmo fare tanti altri esempi.
Su Facebook si sprecano le foto di cani e gatti conciati come dei pagliacci, vestiti da babbo natale, o con cappellino e occhiali da sole, e cose del genere. Immagini tristissime dell’amico a quattro zampe mascherato per divertire gli amici.
I nostri amici di specie diversa si prestano al gioco, ci assecondano perché ci amano di un amore incondizionato. Ma noi amiamo loro? Sono certa di sì, li amiamo. Ma forse non ci poniamo abbastanza il problema di che cosa voglia dire dare loro dignità e rispetto.
Negli ultimi vent’anni sono stati fatti dei passi molto significativi verso i diritti degli animali. In ambito animalista si cita spesso il Trattato di Lisbona che all’art. 13 riconosce gli animali come “esseri senzienti”. Eppure continuiamo ad accettare forme di sottomissione che vengono considerate “normali”, ma che non applicheremmo mai nei confronti di un essere umano. E’ ancora così lontano il giorno in cui ci porremo il problema di una parità interspecie?
Viene considerato “normale” separare le famiglie dando in adozione una cucciolata di cani o di gatti nonostante il grande dolore che inevitabilmente viene provocato da questo allontanamento. Viene considerato “normale” mutilare i maschi e sterilizzare le femmine anche quando non necessario, e gli stessi veterinari, al pari dei più accaniti obiettori di coscienza, non prendono neppure lontanamente in considerazione altre forme di sterilizzazione che lascerebbero intatte le funzioni sessuali, preservando così anche i loro ruoli sociali.
Sono discorsi difficili, lo so. Molte volte anche tra persone che amano appassionatamente gli animali nascono delle differenze che dividono anziché unire, e questo di certo non aiuta la causa animalista. Tutti coloro che amano gli animali sono sicuramente in buona fede e ritengono di agire nel giusto cercando di salvare più animali possibili da una sorte avversa. Li si sterilizza per evitare malattie. Si dividono le famiglie perché insieme non si riuscirebbe a sistemarli.
Io non ho una soluzione per tutti i problemi. Ma parto da un principio molto semplice: gli animali sono “persone” con una loro dignità, cultura e identità morale.
Partendo da questo principio, tutto dovrebbe a cascata portarci a rivalutare il nostro atteggiamento nei loro confronti. Non sono solo degli esseri da aiutare, non sono degli eterni bambini che devono imparare da noi. Sono creature senzienti che meritano rispetto e dignità. E in molti casi sono loro ad insegnare qualcosa a noi anziché il contrario.

martedì 2 gennaio 2018

Non ci sarà uno Zoo a Torino! Storia di un anno di lotta

Quando all’inizio dell’anno che sta per finire abbiamo costituito il Comitato “NO agli ZOO” è stato un po’ come iniziare una lotta contro i mulini a vento. La battaglia ormai era data per persa, tutti erano convinti che la riapertura dello zoo a Torino in Parco Michelotti fosse inevitabile.
Le associazioni che da anni stavano conducendo una protesta cercando ogni possibile punto debole per ostacolare il progetto che avrebbe visto nuovamente gli animali in prigione senza colpa, e proprio nel Parco Michelotti, lo stesso luogo dove trent’anni fa era stato chiuso lo zoo, sembravano ormai rassegnate a un’evidenza che dava per scontata la dura realtà: lo zoo non si poteva fermare.
Ma non potevamo arrenderci all’idea che la nostra città vedesse nuovamente lo spettacolo tristissimo di animali detenuti, estrapolati dal loro habitat e costretti a una vita che non è la loro. La chiusura dello zoo di Torino aveva rappresentato una grande conquista per i diritti degli animali, ed ora, tre decadi dopo, in un’altra epoca, si parlava di riaprire lo zoo? No, non era accettabile.
Abbiamo quindi deciso di tentare un’ultima carta: la fondazione del Comitato “NO agli ZOO” costituito dalle più rappresentative associazioni animaliste e ambientaliste nazionali. Il Comitato nel gennaio 2017 ha intrapreso la Campagna “No Zoo 2017”, un progetto che, alla luce di quanto è accaduto in questi giorni, è stato profetico in quanto ha compiuto la sua missione e chiuso l’anno con un grandissimo e inaspettato successo.
Dall’inizio dell’anno i delegati delle associazioni ENPA, LAC, LAV, LEAL, LEGAMBIENTE Circolo L’Aquilone, LIDA, OIPA, PRO NATURA Torino e SOS Gaia che compongono il Comitato “NO agli ZOO” hanno portato avanti un’azione costante per contrastare il progetto della riapertura dello zoo a Torino. Sono stati organizzati presidi, manifestazioni, incontri e dibattiti, raccolte firme, tavoli e gazebo nel centro di Torino e davanti al Parco Michelotti.
Non era contemplata l’idea di poter perdere la battaglia e si era pronti a continuarla anche negli anni a venire.
Ripercorrendo i passi salienti di questo anno di lotta, mi rendo conto che abbiamo passato 12 mesi tra colpi di scena, frustrazioni, esaltazioni, notizie che si accavallavano, in molti casi contraddittorie, incertezza totale fino all’ultimo. 
Già nei nostri primi incontri di Comitato abbiamo pianificato un corteo nazionale per maggio che, visto a posteriori, avrebbe cambiato le sorti della battaglia rimettendo la posta in gioco.
Ma nel frattempo abbiamo cercato un contatto con le istituzioni locali: più volte è stato chiesto un incontro con la Sindaca di Torino Chiara Appendino, ma inutilmente. Abbiamo scritto  a Beppe Grillo quale garante del Movimento 5 Stelle, con l’oggetto: “Torino non merita uno zoo, ovvero: il tradimento delle promesse elettorali”. Infatti, se è pur vero che l’amministrazione cittadina a guida M5S aveva ereditato questa scelta dall’amministrazione precedente, sembrava essersi perfettamente allineata al progetto, ostacolando ogni azione posta in essere dalle associazioni per fermare l’iter procedurale.
La privatizzazione del Parco Michelotti per la realizzazione di uno zoo con animali esotici detenuti andava pertanto in direzione esattamente contraria a tutte le promesse elettorali.
Il progetto prevedeva di concedere per 30 anni ad un privato un parco pubblico di grande valore a ridosso del centro storico, con ingresso a pagamento, in un’area dove sarebbero stati attrezzati una voliera e una “fattoria didattica” con animali domestici provenienti dai diversi continenti, più una biosfera dedicata all'ambiente tropicale ed ecosistema del Rio delle Amazzoni con animali esotici. Il tutto a  ridosso della centrale Piazza Vittorio Veneto, considerata la zona della “movida”, con il conseguente traffico urbano. Il sito prescelto infatti era ancora il Parco Michelotti, un’area di grande pregio naturalistico situata sulle sponde del Po nel pieno centro della città, che da trent’anni attende di essere riaperta ai cittadini, e che rischiava invece di essere privatizzata.
Tuttavia alle nostre richieste di incontro con l’amministrazione comunale per discutere una eventuale collaborazione non veniva data risposta.
Eppure non c’era giorno che non ricevessimo manifestazioni di solidarietà. La petizione online in pochi mesi arrivava a oltre 28.000 firme. E informando i cittadini si aveva la sensazione che lo zoo non lo volesse nessuno, tuttavia del progetto se ne parlava solo tra “addetti ai lavori”: la maggior parte della gente non ne sapeva nulla. Il progetto pareva andare avanti in una sorta di silenzio-stampa.
Frustrati per la mancanza di un minimo cenno di riscontro da parte della Sindaca o di chi per essa, abbiamo avuto un incontro fortuito al Salone del Libro di Torino: la Sindaca Appendino nel suo giro tra gli stand ha incontrato alcuni volontari di SOS Gaia che presenziavano con uno stand NO ZOO, e alle loro richieste di chiarimento sulla sua posizione ha affermato che lo zoo si sarebbe fatto perché non era più possibile fermare il progetto, sia per il principio della continuità amministrativa sia per via dei danni che la Città non si sarebbe potuta permettere in caso di recessione. Questo punto è stato smentito dalla dichiarazione di 15 tra i più noti Giuristi e professori universitari di Diritto italiani, primo firmatario Ugo Mattei, in cui si sosteneva l’infondatezza della paventata penale milionaria in caso di recessione dal progetto.
Tra i primi atti del Comitato, abbiamo attivato la petizione cartacea “No alla riapertura dello zoo in Parco Michelotti” che al raggiungimento delle 300 firme conferiva la prerogativa di accedere al “Diritto di Tribuna”, ossia una audizione presso il Consiglio Comunale, alla presenza della stampa, per illustrare le nostre ragioni. Le firme raccolte in pochissimo tempo sono state 470. Abbiamo quindi reso note le nostre ragioni al Consiglio comunale e ai media, a pochi giorni dalla manifestazione nazionale del 27 maggio.
Siamo arrivati dunque a maggio, sempre più a ridosso della mobilitazione nazionale. Gli eventi incalzavano. Le associazioni promotrici si sono autotassate raccogliendo ben 6.000 euro che hanno destinato a una grande operazione di propaganda: pubblicità sugli autobus, manifesti e poster in tutta Torino, locandinaggi. L’operato dei volontari che di notte tappezzavano tutta la città di manifesti NO ZOO caricava di entusiasmo e di speranza.
Il nostro battage aveva reso visibile il problema, e avevamo la percezione che la nostra battaglia fosse condivisa dalla maggior parte dei cittadini, nonostante il silenzio delle istituzioni e l’indifferenza dei media. Per fortuna nell’era del citizen journalism i giornali classici possono essere tranquillamente bypassati, ed abbiamo potuto dare ampia diffusione della notizia della manifestazione attraverso i Social, la rete e il passa-parola. Molti i personaggi che ci hanno sostenuto, tra questi: Licia Colò, Daniela Poggi, Roberto Accornero.
Arriviamo quindi al fatidico sabato 27 maggio, data storica che avrebbe cambiato radicalmente le sorti della battaglia.
Se fino ad aprile la sensazione era che comunque lo zoo si sarebbe fatto, da maggio in poi la bilancia ha incominciato a pendere dalla nostra parte e il vento è cambiato. I manifesti per tutta Torino, i poster 6 metri per tre, le pubblicità sugli autobus… tutto faceva capire che stava succedendo qualcosa che non era mai successo prima, nella storia della protesta. Si capiva che facevamo sul serio e che non ci saremmo fermati. 
Siamo arrivati a sabato 27 maggio con una certa apprensione: sarebbe stato un flop? Ci sarebbero state contestazioni, disordini? Quando alle 14 ci siamo radunati nel luogo dell’appuntamento, in Piazza XVIII Dicembre, subito abbiamo avuto l’impressione che ci fosse poca gente. E i soliti gufi hanno cominciato a parlare di flop. Poi pian piano la gente è arrivata, tanta, da tutta Italia. Ci siamo messi in marcia e il numero dei manifestanti è via via cresciuto man mano che si svolgeva il corteo. Una folla colorata, composta, pacifica e festante ha percorso il tragitto dalla Stazione di Porta Susa fino a Parco Michelotti. Persone di tutte le età, bambini, tanti cani. Una giornata di festa, una manifestazione che ha visto la partecipazione spontanea dei cittadini come non se ne vedevano da tempo. Persone che si univano a noi e creavano slogan e cartelli improvvisati all’insegna di “NO ZOO A TORINO!”
Il nostro Comitato aveva allestito due furgoni per la diffusione della musica, degli slogan e dei comizi improvvisati. Le forze dell’ordine, con la collaborazione dei nostri servizi d’ordine, hanno tutelato il corteo che si è svolto senza intoppi di alcun genere.
I manifestanti erano più di 3.000, nonostante sui giornali si sia parlato di cifre che oscillavano tra le centinaia e il migliaio. Ma noi c’eravamo, e sapevamo contare.
Il corteo è terminato davanti a Parco Michelotti, oggi più che mai luogo-simbolo della liberazione animale, con i comizi dei presidenti e delegati delle associazioni promotrici che si chiudevano con lo slogan “Noi non ci fermeremo!”
Abbiamo concluso quella giornata storica con danze improvvisate al suono dei tamburi a cui molti manifestanti si sono uniti spontaneamente, finalmente lasciandoci andare a gioia e sollievo.
Tuttavia eravamo ben coscienti delle forze in opposizione che avremmo avuto contro. Nonostante l’indubbio successo della manifestazione, sapevamo di lottare contro dei colossi. Un gruppo di associazioni di volontariato animato solo da principi idealistici cosa può fare nel confronto con enormi interessi economici e strategie politiche e mediatiche?
Sapevamo anche che il pericolo più grande sarebbe stata l’indifferenza. Un corteo, per quanto riuscitissimo, viene presto dimenticato se c’è l’interesse a farlo dimenticare.
Ma noi non ci siamo fermati e abbiamo fatto in modo che la nostra mobilitazione non venisse dimenticata, nonostante il disinteresse dei media. Abbiamo continuato con presidi, tavoli e gazebo informativi nel cuore della città. Abbiamo fatto comunicati stampa. Abbiamo attivato la nuova petizione popolare NO ALLA RIAPERTURA DELLO ZOO DI TORINO” che in pochissimo tempo ha  raccolto più di 7.000 firme cartacee di cittadini torinesi.
Siamo arrivati ai primi di dicembre con un po’ più di speranza rispetto all’inizio dell’anno, del resto i lavori non erano ancora iniziati e un progetto vero e proprio non c’era ancora. Ma ci aspettavamo una lunga battaglia, che magari poteva protrarsi per anni, fatta sia di carta bollata sia di manifestazioni. Il ricorso al TAR presentato da un gruppo di associazioni, alcune delle quali poi confluite nel Comitato “NO agli ZOO”, in cui si chiedeva l’annullamento, previa sospensione cautelare, della Determinazione Dirigenziale del Comune di Torino per i molti i profili di illegittimità riscontrati nella procedura, non era stato accettato pur non essendoci un giudizio nel merito, e si aspettava l’esito dell’appello al Consiglio di Stato. Insomma pensavamo fosse una battaglia estenuante che sarebbe andata per le lunghe. Ed eravamo più che pronti a combatterla.
E invece… pochi giorni prima di Natale, a sorpresa, la società “Zoom” - soggetto privato che già gestisce uno zoo in provincia di Torino, si ritira dichiarando: “Sono venuti meno i presupposti per questo percorso”. Una posizione impensabile solo fino a pochi mesi fa.
Tra le motivazioni che hanno determinato questo passo indietro, viene citata la strenua opposizione delle associazioni animaliste. Il corteo di maggio e le 7.000 firme hanno sicuramente fatto pesare il piatto della bilancia a nostro favore. E’ da sottolineare l’impegno del nuovo assessore all’Ambiente Alberto Unia nell’aver condotto in porto una delicata trattativa.
La restituzione del Parco Michelotti ai cittadini era una componente importante della nostra lotta: infatti il Comitato “NO agli ZOO” vede schierate dalla stessa parte della barricata sia le associazioni animaliste che quelle ambientaliste, il che non è sempre così scontato.
“Riapriremo al più presto la vecchia area giochi per i bimbi - dice Unia - e inizieremo a progettare il futuro del parco per restituirlo ai cittadini”. 
La Campagna “No Zoo 2017” chiude l’anno con la vittoria di tutte le associazioni e le singole persone che si sono battute per gli animali liberi e per la restituzione del Parco Michelotti ai cittadini. Un grande risultato per tutti coloro che hanno sostenuto la battaglia contro la riapertura dello zoo di Torino.
Ma soprattutto è una vittoria per i diritti degli animali. Torino non vedrà riaprirsi un luogo di detenzione per esseri senzienti senza colpa, e Parco Michelotti a buon diritto si riconfermerà quale simbolo della liberazione animale.
Ora è il momento di festeggiare. Il successo di questa battaglia può dare forza al mondo animalista e ambientalista e diventare un simbolo di speranza per tutti coloro che lottano per dare dignità ai nostri fratelli animali non umani.
Un mondo migliore è possibile!