martedì 22 novembre 2011

IL SEGRETO DI VILLEFRANCHE


L’Hotel Welcome di Villefranche-sur-Mer sembra una porta dimensionale su una realtà d’altri tempi. A prima vista è semplicemente un delizioso piccolo albergo affacciato sulla baia, ma a poco a poco si rivelerà qualcosa di sconosciuto e strano.
Tanto per cominciare, i frequentatori. E’ difficile vedere insieme, in una piccola cittadina sul mare della Provenza, tante persone provenienti da posti così distanti fra loro. Australiani, scandinavi, americani, sembra che persone da tutto il mondo si diano appuntamento qui.
I personaggi illustri che hanno sostato al Welcome non si contano. Pittori come Picasso, Graham Sutherland, Setsu Nagasawa,  scrittori come  Aldous Huxley o Sommerset Maugham, artisti, musicisti, sembravano darsi appuntamento in questo albergo per far nascere nuove opere. Stravinsky vi compose la musica di Oedipus Rex; la famosa modella Kiki de Montparnasse vi risiedette per molto tempo.
L’artista che più legò il suo nome all’albergo fu Jean Cocteau, il controverso esoterista che abitò al Welcome per diversi anni, nella stanza 22. Cocteau lasciò a Reine e Guy Galbois, i genitori dell’attuale proprietario Gèrard Galbois, un disegno riprodotto a mosaico all’entrata dell’hotel, con la dedica: “Al mio carissimo Welcome, dove ho passato il meglio della mia vita”.
Molte le celebrità, come Errol Flynn, Liz Taylor e Richard Burton, Gerard Butler, o i personaggi politici come Wiston Churchill, che al Welcome si incontrava con amici e collaboratori.
Il “Wine Pier” del Welcome il sembra un po’ il bar di Star Trek, dove si può trovare gente di ogni razza e si sente parlare in lingue diverse e sconosciute. Insomma il posto ideale per convegni segreti che possano passare inosservati.
Ma qual è il segreto del Welcome?
L’anima misteriosa di questo albergo che ha richiamato personaggi emblematici di tutti i tempi è intimamente legata alla storia del paese che lo ospita.
L’hotel Welcome, che una volta si chiamava “Hôtel de l'Univers”, ha una storia antica di ben nove secoli. La parte più antica dell’edificio risale al XIII secolo, ed ospitava un convento e una cappella, dimora dei pellegrini che vi sostavano per ritemprarsi. La Chapelle Saint Pierre, proprio di fronte all’albergo, è stata restaurata da Jean Cocteau con dipinti a dir poco inquietanti. Dietro l’albergo sono stati scoperti dei resti di sepolture di data incerta, che sono stati attribuiti ad un antico cimitero.
Proprio dietro l’hotel Welcome vi è la famosa “Rue Obscure”, un passaggio a volta, classificato monumento nazionale, della stessa epoca dell’antico edificio, XIII secolo. Una via che percorre tutta la Vieille Ville, suggestiva e misteriosa per l’atmosfera che evoca un passaggio dimensionale dove sembra di poter incontrare qualsiasi creatura dell’altro mondo.
Nel “Testamento di Orfeo” di Jean Cocteau, un film autobiografico in cui l'autore si circonda dei personaggi che hanno segnato la sua vita (Picasso, Dominguin, Sagan, Bardot, Brynner, Lifar),  appare la Rue Obscure, dove il regista ha voluto ambientare l’incontro con il suo “doppio”. La pièce da cui è stato tratto il film è stata scritta da Cocteau all’hotel Welcome.
Tutti questi personaggi sembrano aver lasciato un po’ della loro anima in questo albergo. E forse non solo in senso poetico. Esistono racconti e testimonianze di presenze invisibili che visiterebbero periodicamente l’hotel. Si parla cautamente di fantasmi, vi sono ospiti dell’albergo che affermano di essere stati “visitati” nella notte da presenze luminose.
La baia di Villefranche è uno dei porti naturali più profondi del Mare Mediterraneo, e costituisce un riparo sicuro per navi anche di grandi dimensioni, arrivando a profondità di 95 metri. I confini della città si inerpicano su per le colline, raggiungendo ripidamente i 520 metri in corrispondenza del Mont-Leuze. Da qui si può godere lo spettacolo delle tre “Corniches”, le strade principali che collegano Nizza all’Italia passando per Villefranche.
Villefranche-sur-Mer ha una storia antica e complicata.
Situata nella regione Provenza-Costa Azzurra, fino al 1861 apparteneva all’Italia con il nome di Villafranca Marittima. Villafranca costituiva la più importante base navale del Ducato di Savoia: di qui partivano le navi che presero parte nel 1571 alla battaglia di Lepanto contro l'espansione dell'Impero ottomano.
Per difendersi dagli attacchi, nel 1557 il duca Emanuele Filiberto di Savoia eresse due fortezze: un forte sul Mont-Alban alle spalle dell'abitato, e l'imponente articolata Cittadella bastionata di Saint Elme, in posizione elevata sulla rada.
Oggi la Cittadella ospita numerosi musei ed eventi famosi in tutta la Francia, come il Museo Volti,  dedicato allo scultore che ha indirizzato le sue opere alla figura femminile intesa come simbolo di Madre Terra, e che ha  ricoperto tutta Villefranche (sua città di adozione) di sculture raffiguranti sensuali nudi femminili.
O come il Salon de la BD (Bande Dessinée), prestigiosa fiera di fumetti, la cui seconda edizione ha avuto luogo il 3 ottobre scorso e dove si potevano trovare delle autentiche perle, come “Les  Cathars” e “Les Templiers”, storie romanzate a fumetti dei Templari e dei Càtari di Fabio Bono.
Luogo di villeggiatura fin dai primi dell’ottocento per l'aristocrazie russa ed inglese, la rada di Villefranche offre riparo alla sesta flotta degli Stati Uniti alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nell’ambito  dell'Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord (NATO) tra 1945 e 1966.
La rada di Villefranche è un riparo naturale, protetto da un anfiteatro di montagne che fin dall’antichità è servito da ancoraggio alle navi greche e romane. Il sito è tuttavia vittima di attacchi barbari ripetuti. Gli abitanti abbandonano la costa e si rifugiano sulle montagne, fondando un altro villaggio, Montolivo.
Nel 1295, Charles II d'Anjou, conte della Provenza, comprende l'importanza strategica di questo luogo situato alle frontiere del suo territorio. Per incoraggiare gli abitanti a popolare la costa concede loro una franchigia sulle tasse. Il villaggio è così battezzato Villa Franca.
Alcuni autori e storici si sono chiesti il motivo per cui questo paese con enormi potenzialità abbia impiegato tanto tempo a decollare, e ancora oggi sia così difficile da raggiungere, tanto da sembrare di voler scoraggiare chi cerca di avvinarsi. La zona è stata definita come un pezzo di “Cinque Terre” in Provenza. Non vi è una uscita diretta dall’autostrada; le vie che portano a Villefranche sono impervie, male illuminate e soprattutto, le indicazioni sembrano fatte per portare fuori strada.
Il paesaggio però è da favola: dai paesini montani della Provenza attraversati dalla Grande Corniche si “precipita” (quasi letteralmente) sul bordo del mare in un dedalo di stradine tortuose e a senso unico, e quando si sono quasi perse le speranze, compare una baia da sogno con viuzze e casette abbarbicate ai piedi delle montagne. Proprio per questa sua conformazione, Villefranche è praticamente costituita da infinite gradinate con centinaia di scalini che la percorrono in verticale.
Il fascino di questa cittadina provenzale è indiscutibile, sarà forse per questo che artisti importanti come i Rolling Stones hanno scelto proprio Villefranche per creare il loro album “Exile on Main Street”. Bono degli U2 possiede una villa nella zona e Madonna è una frequentatrice abituale del posto.
Ma la fama di Villefranche è legata soprattutto a Jean Cocteau, un personaggio emblematico e controverso.
Jean Maurice Eugène Clément Cocteau (1889 –1963) è stato un saggista, drammaturgo, sceneggiatore, disegnatore, scrittore, librettista, regista ed attore francese.
Cocteau si considerava soprattutto un poeta e un filosofo. Un intellettuale controcorrente che ebbe grande influenza sui lavori di altri artisti, compreso il circolo musicale di Montparnasse, conosciuto come "Gruppo dei Sei". A Montmartre stringe amicizia con Guillaume Apollinaire, Roland Garros, Max Jacob, Pablo Picasso, Max Jacob, Erik Satie e Amedeo Modigliani, che lo ritrarrà in un famoso dipinto.
Tuttavia la fama di Jean Cocteau era quella di essere un intellettuale maledetto che cercava la spiritualità attraverso le frequentazioni di circoli esoterici, ma senza mai trovare veramente quello che cercava. Secondo alcuni era iscritto alla Massoneria, ed è un dato di fatto che il suo nome figuri nell’elenco dei Gran Maestri del Priorato di Sion, la società segreta ammantata di misteri, legata ai Rosacroce.
L’inquieto Cocteau approdò a Villefranche nel 1924 al culmine di una vita tormentata, dopo la morte del suo più caro amico, lo scrittore Raymond Radiguet. Prese dimora all’Hotel Welcome, nella stanza 22, che da allora divenne la sua seconda casa. Nel turbinìo della sua vita dissoluta, Cocteau periodicamente si rifugiava in quella che per lui era un’oasi di pace, fino a trascorrervi l’ultimo periodo della sua vita.
Che cosa lo spinse proprio in quell’angolo di mondo, lui che era abituato a girovagare senza mai fermarsi, e cosa lo trattenne per così tanto tempo? La sua ricerca spirituale e la sua vita sregolata lo portarono ad isolarsi dal mondo per trovare finalmente se stesso. Negli anni che trascorse all’Hotel Welcome ospitò numerosi artisti, filosofi e scrittori, con cui intratteneva lunghe discussioni filosofiche.
Cocteau restaurò la Chapelle Saint Pierre che divenne da allora un museo dedicato all’artista. Dopo il restauro di Cocteau, più che una cappella ora sembra un tempio massonico. Le sue decorazioni diedero all’antica cappella un volto pagano, iniziatico, e piuttosto inquietante, come se in quell’opera egli trasferisse la sua inquieta ricerca e cercasse attraverso di essa una risposta ai suoi interrogativi.
Jean Cocteau fu nominato cittadino onorario di Villefranche e proprio davanti al suo amato Hotel Welcome, di fronte alla Chapelle Saint Pierre, venne eretto un busto in suo onore.
Perchè scelse Villefranche? E cosa trovò in quel luogo?
Anticamente, l’intera zona era abitata da Greci e Romani. Ancora prima, dai Celto-liguri, che occupavano un vasto insediamento che si estendeva dall’attuale Villefranche a Saint Jean Cap Ferrat.
Le tracce di questo arcaico passato non sono visibili, eppure non si spiega, nell’ottica di una zona dedicata quasi esclusivamente al turismo, la presenza di Madonne Nere la cui esistenza non viene né spiegata né pubblicizzata.
Il culto della Madonna Nera è associato alla Grande Madre, un simbolo pagano che risale al Neolitico, se non addirittura al Paleolitico, viste le numerose figure di donne dai seni prosperosi ed il ventre gonfio che si ritrovano un po' ovunque in Europa.
La Madonna Nera, o Vergine Nera, è un simbolo apparentemente cristiano, ma il colore nero non è spiegato dalla chiesa e lascia supporre che il cristianesimo nascente abbia soppiantato i culti esistenti, in particolare i culti primigeni della Grande Madre, sostituendoli con quello della Vergine Maria. La Dea Madre, ovvero Madre Terra, la Natura, venne così raffigurata come la Vergine Nera, nera come la terra fertile che deve essere fecondata.
Innumerevoli sono le statue della Madonna Nera in tutto il mondo, e quasi sempre attorno a questo simbolo sono presenti tradizioni pagane ancora vive, sopravvissute all’avvento delle grandi religioni.
A Villefranche esiste la Chapelle de la Madone Noire, che deve il suo nome ad una grande tavola posata sull’altare principale, in cui sono raffigurati una vergine con il suo bambino, entrambi neri.
Questa cappella è molto nascosta e attualmente irraggiungibile: infatti, nonostante vi sia addirittura una fermata dell’autobus denominata “Madone Noire”, e la chiesa sorga sulla sommità di una collinetta al termine del Chemin de la Madone Noire, la strada è bloccata e non vi è nessuna indicazione per una strada alternativa, neppure pedonale.
Ma fino a pochi anni fa, in questa cappella si celebravano riti propiziatori e protettivi a cui partecipavano persone provenienti da tutte le campagne circostanti, celebrazioni dedicate soprattutto a coloro che si accingevano a partire per missioni lontane e difficili. Un volto segreto e inedito di Villefranche che è difficile associare alla cittadina balneare dedita soprattutto al turismo.
Poco distante, nel paese attiguo Saint Jean Cap Ferrat, la sorpresa è grande nel veder apparire come dal nulla una statua gigantesca raffigurante una Madonna Nera con il bambino.
La statua è alta la bellezza di 11 metri e mezzo, è di bronzo, e sorge vicino alla Chapelle Saint Hospice, edificata nell XI secolo sulle rovine di un antico santuario. Davanti all’entrata, a fianco della Vergine Nera, è posata una grande ruota forata, senza uno scopo apparente, ma anch’esso un simbolo pre-cristiano, di origini druidiche. La cappella deve il suo nome ad un santo, Hospitium, che visse verso l’anno 550 e che condusse una vita da eremita in una torre. La cappella fu per molto tempo un luogo di pellegrinaggio ed aveva la fama di esaudire i voti di chi vi si recava.
La grande Vergine Nera è stata eretta infatti nel 1904 a cura di un ricco negoziante di Nizza dopo l’esaudimento di un voto.
Chi era in realtà Hospitium? Un druido che cercava di proteggere la sua tradizione? E perchè la grande Madonna eretta fu voluta di colore nero? Un culto pagano che sta discretamente proseguendo, nascosto dall’immagine appariscente del turismo locale? Realtà invisibili che si celano nella discrezione, come la Massoneria locale, con numerose logge in Costa Azzurra.
Scopriamo che la zona fu per molto tempo anche un insediamento Templare. Accanto alla cappella, e alla grande Vergine Nera, vi è infatti un cimitero templare, con la presenza di grandi croci sia dei Cavalieri del Tempio che celtiche. Parlando con persone residenti in zona, scopriamo che i Templari, in Provenza, sono tuttora presenti anche se non si manifestano apertamente. Sappiamo che la tradizione dei Templari deriva dai Celti, un ramo celtico che si è salvato dalle persecuzioni.
Le croci celtiche del resto non mancano neppure nel cimitero di Villefranche, al centro della città alta. Croci recenti, che fanno intuire un culto mai morto.
Echi celtici che ritroviamo anche nel nome Gal, un’antica famiglia di Villefranche che diede i natali al mecenate che a seguito dell’ottenimento di un miracolo fece erigere la Vergine Nera della Chapelle Saint Hospice. La famiglia Gal fece anche costruire a Villefranche una cappella isolata e poco conosciuta, la Chapelle des Anges Gardiens (la cappella degli Angeli Custodi).
Anche questa cappella è particolare. Colpisce innanzitutto che sia priva di effigi cristiane: non vi sono né croci né crocifissi, ma solo quadri con angeli e una statua della Madonna. Lo stile, spoglio e  esoterico, ricorda la chiesa di Trehorenteuc nella foresta di Brocéliande in Bretagna, anch’essa priva di simboli cristiani ma densa di messaggi druidici.
A Villefranche la chiesa principale è quella di Saint Michel, anch’esso un simbolo stranamente presente in molti luoghi dove persistono credenze pre-cristiane. Nella chiesa di Saint Michel di Villefranche vi è una statua di Saint Roch insieme ad un cane che gli porge un pane. Saint Roch è un santo dall’identità  molto controversa, di origini incerte, a cui vengono associati poteri taumaturgici, dedito al rapporto con la natura e con gli altri esseri viventi, spesso raffigurato insieme ad animali. Un santo che per via delle leggende di cui è ammantato può far pensare alla figura del druido. La leggenda racconta che un cane gli salvò la vita portandogli ogni giorno un pezzo di pane dopo che egli fu scacciato perchè contagiato dalla peste.
Tornando alla Chapelle des Anges Gardiens, nell’entrata principale si è accolti da tre statue raffiguranti delle figure che sembrano druidi. Sono poste allineate, con quella centrale (femminile) un po’ più in alto rispetto alle altre, rispecchiando il simbolo druidico del tribann o del siv’nul (il candeliere a tre braccia dei Celti).
E’ da notare che anche la figura dell’angelo custode, così come per la Madonna Nera, è stata associata a simboli pagani cooptati dal cristianesimo. L’angelo custode può essere facilmente associato allo spirito-guida presente in molte tradizioni native.
In questa cappella, non compresa nei percorsi turistici, scopriamo che i riti vengono officiati da Père Tschann, nome, anch’esso, che può ricordare l’antico termine druidico Shan, il nome con cui i druidi definivano la Natura nel suo aspetto immateriale.
Come collegare tutte queste apparenti anomalie nella realtà di Villefranche, una realtà dominata dai riti sociali imposti dal turismo e dalla vita balneare che lasciano poco spazio alla fantasia e all’immaginazione?
E qui torniamo al punto di partenza: l’Hotel Welcome, apparente centro nevralgico della nostra ricerca. Secondo alcuni autori, le sepolture rinvenute dietro l’albergo sarebbero da attribuire ad un antico cimitero templare.
La presenza dei Templari potrebbe forse darci una spiegazione sui misteri di Villefranche.  Potrebbe costituire il trait d’union tra le antiche origini celtiche della zona e l’attuale esoterismo, che trapela palesemente dalle opere di Jean Cocteau.
Forse Jean Cocteau, nei dipinti con cui ha decorato il suo amato hotel e la cappella adiacente, ha nascosto un messaggio da decifrare, destinato a chi lo sa interpretare. Forse ha lasciato ai posteri la testimonianza di un culto pagano sopravvissuto, nascosto dietro la facciata multicolore del turismo.

lunedì 15 agosto 2011

NATIVE


“Se iéu sabiau volar coma la lauseta blanca lonlà lonlà...” Cha b'e sneachda 's an reothadh ò thuath...”  Au ton cuenh qu'as un riban blanc... “Eòrus dous koan’ vel un aelig...” “Mile marush airi a ghol...” ...
No, non sono posseduta, né affetta da una improvvisa crisi di xenoglossìa. Sto semplicemente registrando il nuovo CD del LabGraal, saltellando tra antiche lingue come gaelico, bretone, scottish, occitano. Per niente facile. Ma forse un po’ posseduta lo sono davvero: questo periodo di full immersion al Transeuropa Studios mi fa sentire come se vivessi in bilico tra realtà e sogno. E so che per i miei compagni di avventura è la stessa cosa. Lo studio di registrazione è un mezzo per entrare in contatto con una dimensione creativa da cui peschiamo per la nostra musica; la mia voce diventa uno strumento per lasciar scaturire, come da una sorgente, un antico richiamo.
Siamo chiusi tutti insieme in questo bunker per sfruttare appieno questo momento di calma estiva. 
Mi distolgo solo per fare un giro al supermercato e riempire di cibo l'auto, perchè so che se non li foraggio con vivande e del buon vino, i miei compagni si bloccano in uno sciopero ad oltranza, e soprattutto non oso pensare in che cosa si può trasformare Gianluca se gli manca il cibo.
Quando ci si concentra per giornate intere sulla musica si arriva ad avere stati percettivi un po’ distorti. La dimensione idilliaca attorno allo studio contribuisce a farci sentire in un posto fuori dal mondo: silenzio, solitudine, verde, piscina tutta per noi. L’ideale per un relax tra una incisione e un’altra.
Questo CD sta assumendo una fisionomia tutta sua, e guardandoci indietro, anche questa volta ci sembra di scorgere un copione già scritto in precedenza, di cui noi siamo gli attori inconsapevoli.
A cominciare dal nome. “Native” è un nome scaturito da solo, come naturalmente doveva essere. L’album vuole esprimere la nostra identità nativa, e sollecitare quella di chi lo ascolterà. Ma non solo. Nelle nostre intenzioni, “Native” dovrà esprimere l’identità più tribale e sciamanica della musica celtica. Lo so, è un po’ pretenzioso, ma l’idea è quella.
Già con il CD Dreaming avevamo fatto un salto in un’altra dimensione, oltre i nostri confini. Avevamo realizzato vari album tipicamente celtici, e con Dreaming volevamo esprimere l’esperienza mistica che unisce i Nativi di tutti i continenti. Lo abbiamo fatto insieme con Jida Gulpilil, nativo australiano, con cui abbiamo registrato il CD a Melbourne.  Il pubblico ha apprezzato e capito. “Mother Africa”, registrato con musicisti nativi africani, è stato un ulteriore passo verso una dimensione intimista e magica che rivelava le radici comuni dei Nativi. Un lato mistico della nostra musica che si è evidenziato ancora di più in “The Green Path”, dove il flauto di Giancarlo conduce in un percorso che porta fuori dalla realtà ordinaria.  Poi c’è stato “Shan”, soundtrack dell’omonimo film, in cui abbiamo voluto esprimere il contatto con Madre Terra, anche questo condiviso con i Popoli naturali del pianeta.
Con questo CD torniamo alle origini, nelle nostre terre, dove lo sciamanesimo è un elemento che pervade la cultura dei Nativi europei. Un elemento volutamente nascosto, poichè le cruente repressioni politiche e religiose avvenute in Europa nei confronti della cultura celtica hanno cercato di cancellare le tracce di questa tradizione accanendosi proprio sull’elemento che dava a questa cultura la linfa vitale: l’esperienza sciamanica.
Eppure, nonostante le repressioni in corso da duemila anni, nonostante il continuo tentativo di far finire nell’oblìo le nostre radici ancestrali, lo sciamanesimo, in Europa, non è mai morto e si manifesta ancora oggi in maniera più che evidente. Certo, chi non vuole o non sa vedere perchè ottenebrato dalla cultura imperante, non lo può scorgere. Ma provate a chiedervi che significato hanno tutte quelle feste popolari (ce ne sono a centinaia tutti gli anni) che hanno per protagoniste delle strane figure, a cui danno nomi diversi ma la cui identità è sempre riconducibile allo sciamanesimo. Le “masche”, ad esempio. Identificate come streghe nella cultura disegnata dalla religione, perseguitate e messe al rogo a migliaia al tempo dell’Inquisizione. Figure a cui non si sa attribuire un significato preciso, ma che i ricercatori concordano nell’identificare negli sciamani dell’ “antica religione”. Figure particolari, non solo donne, ma sia uomini che donne, che prima dell’Inquisizione erano rispettate e riconosciute nel ruolo di sciamani che potevano curare il corpo, la mente e lo spirito. Le “masche”, pur se chiamate con nomi diversi, sono le protagoniste di pressoché tutte le celebrazioni popolari dell’Europa, e ne abbiamo vasti esempi nei nostri territori.
E che dire dell’Homo Selvaticus? Anche questa figura la si può trovare nelle leggende, nei balli, nelle ricorrenze di tutta Europa. L’Uomo Selvatico è anch’esso una figura particolare, con molta evidenza riconducibile allo sciamano, un personaggio fuori dalle parti, depositario di un’antica conoscenza, che trae il suo potere dal contatto con Madre Terra.
Sembrano cose d’altri tempi, da relegare nella leggenda, eppure basta alzare un po’ il velo dell’apparenza per ritrovarsi continuamente a contatto con questa realtà leggendaria. Chi la mantiene viva? Come può essere così presente, nonostante i grandi poteri forti la vogliano sopprimere ad ogni costo?
Potremmo anche spingerci oltre, e chiederci come mai una cultura che non ha mai professato la violenza, che ha come riferimento il contatto con la Natura, sia stata e sia ancora così duramente contrastata. E temuta. Che cosa possiamo temere da Madre Terra?  Il contatto con la Natura può far paura allo status quo?
Queste riflessioni apparentemente possono sembrare slegate dalla realizzazione di un CD. Eppure non è così. Il nostro album scaturisce proprio da riflessioni ed esperienze di questo tipo. Vogliamo (e speriamo di riuscire nel nostro intento) esprimere le radici sciamaniche della musica celtica. Quelle radici mai morte, che possono dare un cuore e un senso all’esperienza del Nativo che è in noi.

venerdì 5 agosto 2011

I Popoli naturali verso un mondo migliore

I “Popoli di Madre Terra” si sono ritrovati per continuare la loro lotta. Questa volta l’appuntamento era all’ONU di Ginevra, dove si è svolta la quarta sessione dell’Expert Mechanism on the Rights of Indigenous Peoples, un corpo sussidiario del Consiglio per i Diritti Umani con lo scopo di studiare strategie e suggerire provvedimenti al Human Rights Council affinchè i Popoli indigeni vengano tutelati nei loro diritti e riconosciuti dagli Stati di appartenenza. Dopo l’approvazione da parte dell’ONU della Carta dei Diritti dei Popoli Indigeni, adottata nel settembre 2007 a conclusione di vent’anni di lavoro per la sua stesura, c’era bisogno di un meccanismo che aiutasse a renderne operetivi i principi. Per questo il Consiglio per i Diritti Umani ha attivato un gruppo di esperti che potesse lavorare a questo scopo. I rappresentanti delle varie Nazioni native hanno portato alla commissione le relazioni sui problemi vissuti dalle loro comunità e i suggerimenti per la tutela dei loro diritti.
La settimana di lavoro è stata intensa e interessante. Lo scambio di informazioni tra i delegati porta ad arricchire la conoscenza personale del mondo dei Popoli naturali, aggiungendo ogni volta nuovi tasselli di un mosaico eterogeneo e multivariegato. Mondi invisibili che, senza queste occasioni, probabilmente non saprebbero mai nulla gli uni degli altri.
Io e Giancarlo eravamo invitati per dare il nostro contributo di idee. Ci accompagnavano Luca e Gianluca, praticamente erano presenti i quattro quinti del LabGraal.
Come sempre accade in queste assemblee dedicate ai Popoli indigeni, è un susseguirsi di saluti, incontri, accordi, scambi di informazioni e progetti per il futuro. Le variopinte assemblee dedicate ai Popoli nativi hanno un’atmosfera tutta particolare, ben diversa dalle altre assemblee dell’ONU, molto più ingessate e formali.
Abbiamo così potuto rivedere molte delle persone con cui abbiamo lavorato in questi anni e con le quali, al di là degli appuntamenti ufficiali all’ONU di New York o di Ginevra, esiste un legame ormai consolidato e fraterno.
Sono stati giorni frenetici e densi di incontri, durante i quali i delegati delle varie Nazioni indigene si sono sottoposti volentieri alle mie interviste per Shan Newspaper.
Abbiamo incontrato Chief Wilton Little Child, uno dei 5 coordinatori dell’Expert Mechanism e Capo del Consiglio Tribale degli indiani Cree del Canada. Secondo Wilton, questo organismo è un ottimo strumento per creare dei parametri e suggerire provvedimenti. “Se il Consiglio per i Diritti Umani prenderà sul serio le nostre relazioni e le nostre raccomandazioni, favorendone l’implementazione da parte degli Stati, la cosa andrà a vantaggio delle comunità locali: sarebbe davvero un risultato grandioso”. “Tuttavia” continua “molto deve ancora essere fatto. In alcuni casi le cose stanno peggiorando. Ad esempio anche in paesi sviluppati come il mio, non si sono riscontrati miglioramenti in termini di povertà infantile”.
Abbiamo parlato con Tomàs Condori, rappresentante della Nazione Aymara della Bolivia. Tomas è molto duro nel denunciare le oppressioni a cui il suo popolo è ancora soggetto:  “Il processo in atto è troppo lento, rispetto ai problemi di sopravvivenza che si vivono tra la mia gente”. Denuncia inoltre la piaga delle religioni che “hanno cercato di assimilare le nostre tradizioni ancestrali creando una confusione di riferimenti spirituali”. Secondo Condori inoltre vi sono troppe organizzazioni che apparentemente supportano i Nativi, ma in realtà sfruttano l’argomento per scopi personali. 
Kenneth Deer è una delle persone che più si sono adoperate in tutti questi anni per i diritti dei Popoli indigeni. Ci lega un’amicizia ormai decennale e ogni volta è un piacere ritrovarsi. Kenneth è rappresentante della Nazione Mohawk del Canada ed è tra i promotori dell’Expert Mechanism. Fa notare le grandi similitudini che esistono tra i Popoli indigeni: “le stesse lotte, lo stesso modo di affrontare i problemi, la solidarietà. Alla base di tutto ciò c’è una comune spiritualità basata sulla connessione con Madre Terra. La società maggioritaria ha perso questo contatto con la Terra, e in questo modo la gente si è perduta”. Secondo Kenneth “i Popoli indigeni devono proseguire nella lotta per la sopravvivenza della loro cultura, poichè se le loro tradizioni non sopravviveranno, essi saranno assimilati e destinati a scomparire”.
Les Malezer è rappresentante della comunità aborigena Gabi Gabi e presidente del National Congress of Australia's First Peoples, una organizzazione che lavora in accordo con il governo australiano per garantire agli aborigeni gli stessi diritti di cui godono gli altri cittadini. Collabora alla Ecospirituality Foundation come membro dello staff. Secondo Les Malezer si fa ancora troppo poco per tutelare le conoscenze tradizionali dei Nativi. Inoltre denuncia il fatto che “molte comunità native non hanno la possibilità di partecipare a questi incontri perchè non ne hanno le possibilità, e a questo bisognerebbe porre dei rimedi”.
Anastasia Chuckman, rappresentante della comunità indigena della Kamchatka, è uno dei cinque esperti in carica per i prossimi tre anni. Ci racconta che in Russia la Carta dei Diritti dei Popoli indigeni approvata dall’ONU non è minimamente presa in considerazione: “Sfortunatamente, la Russia non ha ancora approvato la Dichiarazione e ciò significa che i principi fondamentali delle Nazioni Unite non sono stati ancora adottati dalla Federazione Russa”. Anastasia afferma: “Mi auguro che con il lavoro di questo organismo, lo Human Rights Council possa raccogliere i suggerimenti e stimoli gli Stati a mettere in pratica i principi della Carta dei Diritti”.
Abbiamo incontrato Julian Burger, una persona-chiave nel processo della tutela dei diritti dei Popoli indigeni. Julian è il coordinatore uscente dell’Indigenous Peoples and Minorities Unit dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani. Ha lavorato per vent’anni con i Popoli indigeni ed ha partecipato attivamente alla Carta dei Diritti fino alla sua approvazione finale. Ci racconta che il suo lavoro a fianco dei Nativi non è stato un lavoro ma una passione, poichè si è reso conto che la società maggioritaria ha tantissimo da imparare dalla società dei Popoli naturali. “Da quando ho iniziato a lavorare in questo campo” dice Burger “ho sempre avuto l'impressione di apprendere qualcosa. Non ho mai smesso di imparare, ho sempre la sensazione che mi sia rivelato qualcosa, e non qualcosa su altri popoli, ma su di me e sulla mia società”. E continua: “A livello personale, ancora oggi continuo ad imparare da loro”.
Da parte nostra, eravamo presenti come delegati della Ecospirituality Foundation in rappresentanza delle comunità indigene che sostiene e per evidenziare le comunità autoctone dell’Europa, di cui si sa ancora poco o nulla nell’ambito delle Nazioni Unite. Abbiamo evidenziato la presenza delle tante culture autoctone in Europa e il dibattito in atto tra queste sull’opportunità di un riconoscimento, da parte dell’ONU, che tuteli la sopravvivenza delle loro tradizioni. Abbiamo stigmatizzato il fatto che anche in Europa esistono Popoli nativi che hanno continuato le loro tradizioni nonostante le repressioni politiche e religiose. Comunità che mantengono il riserbo sulla loro esistenza perchè non si sentono sicure della loro sopravvivenza. Per questo motivo abbiamo fatto presente che la Ecospirituality Foundation ha voluto dare visibilità alla cultura dei Nativi europei erigendo un grande cerchio di pietre che dia testimonianza della loro presenza storica e delle loro tradizioni.
E’ più che evidente il legame tra le culture primigenie dell’Europa e quelle degli altri continenti: le similitudini in termini di esperienza, spiritualità, usi e costumi stanno emergendo sempre più chiaramente e i delegati nativi con cui ci siamo confrontati hanno constatato con piacevole sorpresa questo dato di fatto.
Nei forum dei Popoli naturali si respira sempre un’aria vitale, protesa verso il futuro, e anche se si trattano problemi che riguardano la sopravvivenza di antiche culture che non vogliono morire, l’atmosfera è gioiosa e piena di speranza. Non mancano le discussioni, anche accese; gli statements sono delle testimonianze che trattano problemi spinosi, spesso drammatici, ma denunciati senza fronzoli, retoriche o vittimismi. Quello che trapela è l’intenzione di costruire una nuova umanità in cui le comunità native possano vivere a fianco della società maggioritaria, con il diritto di praticare le loro tradizioni e di salvaguardare le loro terre sacre.
Tutti i rappresentanti dei Popoli indigeni, di tutti i continenti, concordano sul fatto che nonostante le diversità di cultura, lingua, usi e costumi, ci sia una spiritualità comune. Dice Littlechild: “Esiste un forte legame spirituale che attraversa le nazioni indigene e che ci unisce, e penso che sia questo legame ad averci dato la forza di lottare in tutti questi anni, senza arrenderci, senza provare frustrazione, continuando a impegnarci, anche senza vedere risultati immediati, per cambiare le cose, per un futuro migliore. Questo legame forte fa di noi una cosa sola”.
Da quando i Popoli indigeni sono entrati a far parte delle Nazioni Unite sono stati fatti passi da gigante. Il primo meeting ufficiale è avvenuto nel 1982, a cui hanno partecipato pochissimi indigeni. Ora gli Indigenous Peoples costituiscono l’assemblea più vasta delle Nazioni Unite, con Forum frequentati da migliaia di delegati indigeni. Ma soprattutto si sta consolidando sempre di più la consapevolezza di essere un unico Popolo. Usanze in comune, similitudini nei riti, e al di sopra di tutto, uno stesso modo di concepire la spiritualità nel riferimento diretto a Madre Terra.
Negli incontri periodici in occasione di queste assemblee, che siano all’ONU di Ginevra o di New York, si rafforza sempre di più la coscienza di quello che i Nativi rappresentano, ossia la speranza di riportare un po’ di equilibrio e di armonia in un mondo governato dalle conflittualità. Dà la misura della crescita in atto nella dimensione dei Popoli naturali, e della forza che essi costituiscono unendosi in un lavoro comune per costruire un futuro migliore per tutta l’umanità.

domenica 10 luglio 2011

ONU: inizia un’altra avventura per gli Indigenous Peoples


Sta per iniziare all’ONU di Ginevra la sessione dei lavori dell’ “Expert Mechanism on the Rights of Indigenous Peoples”. Io e Giancarlo siamo stati invitati a partecipare in rappresentanza della Ecospirituality Foundation, insieme alla nostra delegazione.
So già che sarà una settimana intensa, senza un attimo di respiro, ma so anche che sarà densa di esperienze e di incontri interessanti.
Saremo presenti anche per portare avanti le istanze delle Comunità che rappresentiamo: Apache Survival Coalition, Wiran Aboriginal Corporation, Bassa People, Menhir Libres, Ensemble Allons dans la Paix. Comunità di diversi continenti che hanno in comune il problema dei luoghi sacri profanati.
Più di 370 milione di persone indigene, sparse in 90 Paesi di tutti i continenti, costituiscono oggi quelle culture che non si riconoscono nella società maggioritaria. Culture che mantengono le loro tradizioni e le loro conoscenze ancestrali, nonostante l’opera di colonizzazione che ha teso a polverizzarle. La società maggioritaria, disegnata dalle grandi religioni, ha costruito una storia in cui non c’è apparentemente spazio per le culture autoctone, le quali sono confinate in riserve e sacche storiche con l’unica prospettiva di una esitinzione totale.
Eppure queste culture, non solo non si sono estinte, ma sono progredite portando avanti il loro lavoro di conservazione delle antiche tradizioni, e oggi costituiscono una realtà storica che non può più passare inosservata.
I Popoli indigeni, che si autodefiniscono “Popoli Naturali” per via del loro rapporto primario con la Natura, mantengono caratteristiche sociali, culturali, economiche e politiche che li caratterizzano e li differenziano dalle società dominanti.  In tutto il mondo esistono Popoli autoctoni le cui tradizioni, le loro terre, le loro risorse e i loro luoghi sacri sono stati violati e profanati.
Nonostante le loro differenze culturali, le Nazioni indigene manifestano una unicità culturale, basata sul comune rapporto con Madre Terra, intesa come la depositaria di un grande mistero. La loro spiritualità non passa da profeti e religioni, ma da un rapporto diretto e prioritario con la Natura, rapporto che crea la loro specificità. Un altro forte elemento in comune è la condivisione di problemi riferiti alla protezione dei loro diritti.
Negli ultimi decenni, le Nazioni Unite hanno costituito uno strumento basilare per la sopravvivenza di queste culture. All’interno dell’ONU sono stati fatti dei passi significativi che hanno portato ad una presa di coscienza del problema indigeno, fino ad arrivare alla Carta dei Diritti dei Popoli Indigeni approvata dall’ONU nel settembre 2007.
La Ecospirituality Foundation ha partecipato attivamente al lavoro decennale della stesura della Carta dei Diritti, che si è svolto nei Working Groups di Ginevra e nei Forum di New York, soprattutto per quanto riguarda il tema della difesa delle tradizioni e dei luoghi sacri. Un dibattito costruttivo che ha portato ad inserire nella Carta i principi relativi ai diritti ad una identità nativa:
"I popoli indigeni hanno il diritto di praticare e di rivitalizzare i propri costumi e tradizioni culturali.
Hanno il diritto di conservare, proteggere e sviluppare le manifestazioni passate, presenti e future della loro cultura, in particolare i siti archeologici e storici, l'artigianato, i riti, le tecniche, le arti, lo spettacolo e la letteratura. I popoli autoctoni hanno il diritto di manifestare, praticare, promuovere ed insegnare le loro tradizioni, costumi e riti religiosi e spirituali; il diritto di conservare e di proteggere i loro siti religiosi e culturali e di averne accesso privato; il diritto di utilizzare i loro oggetti rituali e di  poterne disporre; il diritto al rimpatrio dei resti umani dei loro antenati. I popoli autoctoni hanno il diritto di ravvivare, di utilizzare, di sviluppare e di trasmettere la loro storia, la loro lingua, le loro tradizioni orali alle generazioni future, così come la loro filosofia, il loro sistema di scrittura e la loro letteratura, e di scegliere e di conservare i loro propri nomi per le comunità, i luoghi e le persone." (dalla UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples).
Il Consiglio per i Diritti Umani ha svolto un ruolo decisivo in questo processo, in quanto la Carta dei Diritti è stata per anni una priorità nel suo lavoro. Dopo l’approvazione della Carta dei Diritti dei Popoli Indigeni, il Consiglio per i Diritti Umani ha varato un’altra importante iniziativa: l’ “Expert Mechanism on the Rights of Indigenous Peoples”, la Commissione di Esperti per i Popoli Indigeni, costituita da rappresentanti Nativi, che ha lo scopo di studiare i meccanismi di tutela e di messa in pratica della Carta dei Diritti.
Il rapporto tra i Popoli Indigeni e le Nazioni Unite parte da lontano.
Nel 1923, Haudenosaunee Deskaheh, capo degli Irochesi, si recò a Ginevra per parlare alla Lega delle Nazioni (la prima forma di Nazioni Unite). La sua visita aveva lo scopo di rivendicare  il diritto della sua gente a vivere le loro proprie leggi, sulla propria terra e di manifestare le proprie tradizioni. Anche se gli non fu permesso di parlare, la sua azione fu un riferimento per le generazioni successive.
Nel 1925 il suo esempio fu seguito da un leader Maori, T.W. Ratana. Ratana dapprima si recò a Londra con una vasta delegazione per contestare presso Re Giorgio V  la rottura del Trattato di Waitangi stilato con i Maori in Nuova Zelanda nel 1840 che assegnava ai Maori le loro terre. Ma non fu ricevuto a corte. Ratana partì quindi per Ginevra con la sua delegazione per parlare alla Lega delle Nazioni, ma anche qui gli fu negato l’accesso.
Da quei primi tentativi di rapporto, le Nazioni Unite hanno sviluppato nel tempo una serie di iniziative volte a dare ai Nativi la dignità e il diritto a partecipare alla pari alla comunità umana.
Josè Martinez Cobo, Special Rapporteur dell'ONU, diede un contributo decisivo al ruolo che i Nativi avrebbero assunto nella storia, sviluppando tra il 1981 e il 1984 uno studio in cinque volumi sull’identità nativa. Lo studio di Cobo portò a una definizione della Comunità nativa che costituì una base di trattativa  tra i Popoli naturali e le società dominanti.
Josè Martinez Cobo, nel suo trattato, definisce così le culture native:
"Per Comunità, popoli e nazioni autoctone, bisogna intendere coloro che, legati ad una continuità storica con le società anteriori all'invasione e con le società precoloniali che si sono sviluppate sui loro territori, si giudicano distinti dagli altri elementi delle società che dominano attualmente sui loro territori o parte di questi territori.
Questi sono attualmente degli elementi non dominanti della società e sono determinati a conservare, sviluppare e a trasmettere alle generazioni future i territori dei loro antenati e la loro identità etnica che costituisce la base della loro esistenza in quanto popolo, in conformità ai loro propri modelli culturali, alle loro istituzioni sociali e al loro sistema giuridico.
Questa continuità storica può consistere nell'occupare terre ancestrali, nell'avere antenati comuni, una cultura e una lingua in comune, o tradursi a mezzo di altri fattori pertinenti.
Individualmente, un nativo, è una persona che appartiene a un simile gruppo o che è accettato dal suddetto gruppo."
Nel 1989 Ted Moses, Capo del Gran Consiglio del Crees in Canada, fu la prima persona indigena  eletta ad una riunione ONU per discutere gli effetti della discriminazione razziale e la situazione economica dei Popoli Indigeni. Da allora sono sempre aumentate di numero le persone Native a capo di uffici e di riunioni  riferite alle questioni indigene.
Centinaia di rappresentanti Nativi parteciparono attivamente alla seconda Conferenza Mondiale sui  Diritti Umani di Vienna nel giugno 1993. Quello era anche l'Anno Internazionale dei Popoli Indigeni del Mondo. La Conferenza riconobbe la responsabilità degli Stati membri dell’ONU di  rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali dei Popoli Indigeni e indirizzò l’Assemblea dell’ONU verso un Forum permanente per le questioni indigene.
I passi delle Nazioni Unite, per assicurare ai Popoli Indigeni lo status che compete loro, sono stati numerosi, a cominciare dal Working Group on Indigenous Populations, nato come una sub-commissione della Commissione per i Diritti Umani di Ginevra.
Il lavoro ventennale del Working Group on Indigenous Populations è stato decisivo per la stesura della Carta dei Diritti, ed ha portato ad altri importanti passi, come il varo del Forum Permanente sulle Questioni Indigene che si tiene ogni anno a New York e che è diventata l’assemblea più vasta delle Nazioni Unite, con più di 3.000 partecipanti tra delegati Nativi di tutti i continenti e rappresentanti dei governi di tutto il pianeta.
Altre iniziative sono state varate dalle Nazioni Unite in favore degli Indigenous Peoples, come la Prima e la Seconda Decade  dei Popoli Indigeni di tutto il mondo, dove si sono affrontati problemi come cultura, istruzione, salute, diritti umani, ambiente e sviluppo sociale ed economico dei Nativi.
A seguito dell’adozione da parte dell’ONU della Carta dei Diritti, molte cose stanno cambiando nel mondo. Il Canada, gli USA, l’Australia hanno compiuto azioni simboliche come il “Sorry Day” australiano e altre meno simboliche e più consistenti come il recente indennizzo degli Stati Uniti ai Nativi, con un rimborso record di 3,4 miliardi di dollari da parte del governo di Washington per aver sprecato risorse, tra cui terreni, destinate agli indiani d'America.
L’ente denominato “Expert Mechanism on the Rights of Indigenous Peoples”, letteralmente “meccanismo di esperti sui diritti dei Popoli indigeni”, istituito dallo Human Rights Council, l’organismo principale per i Diritti Umani dell'ONU, è un corpo sussidiario che costituisce un altro prezioso strumento per la protezione degli Indigenous Peoples.
Questo gruppo di lavoro è in pratica una commissione di esperti formata da rappresentanti indigeni e dai loro delegati, che si riunisce ogni anno a Ginevra con lo scopo di studiare, indagare e discutere sui diritti dei Popoli indigeni, suggerendo proposte che dovranno essere poi approvate dal Consiglio. Rappresenta un ambito dove verificare e rendere effettiva l’applicazione della Carta dei Diritti. A questa commissione partecipano rappresentanti di tutte le Nazioni indigene, rappresentanti dei governi, NGOs e enti accademici.
A seguito dei passi effettuati dalle Nazioni Unite per assicurare ai Popoli naturali un posto nella comunità internazionale, oggi i Nativi giocano anch’essi un ruolo sul palcoscenico mondiale, e per via dell’apporto che possono dare in termini di conoscenze ancestrali, si intravede un futuro migliore per tutta l’umanità.

mercoledì 6 luglio 2011

Il mondo si ferma per festeggiare il Sole

Cuzco, Perù, 21 giugno. Mentre il sole illumina in un vortice di luci l’intera vallata, il Sacerdote Inca con la sua veste coloratissima inizia la cerimonia dedicata al Sole nel massimo tempio dell’impero Inca, il Coricancha. Entra in scena il corteo formato da quattro gruppi di Inca, che rappresentano gli abitanti delle quattro nazioni, che si alternano nel portare il Sacerdote Inca sulla sua lettiga. Poi si procede al rito e il Sacerdote invoca suo padre, il dio Sole. Le 50 mila persone che affollano le rovine di Sacsayhuaman per assistere alla cerimonia Inca "Inti Raymi" celebrano così l'inizio della nuova stagione.
Stonehenge, Inghilterra, 21 giugno. Il Gran Druido del Druid Order di Londra eleva la coppa del Graal all’interno del cerchio dei druidi con le vesti bianche, per offrirla al Sole. Intorno a loro, 18.000 persone entusiaste e festose, tra turisti, seguaci, hippies e curiosi, assistevano alla celebrazione officiata da quella che nel regno Unito è oggi religione ufficialmente riconosciuta.
Più o meno nelle stesse ore, in tutta la Scandinavia si festeggia il Midsummer, la celebrazione per il Solstizio d’Estate che coinvolge migliaia di persone in tutti i paesi nordici, uniti attorno a grandi falò collettivi e cortei con le torce per le città che si protraggono per tutta la notte.
New York, Central Park, 21 giugno, ore 5 del mattino. Yoko Ono dà appuntamento al pubblico a Columbus Circle per una meditazione con la musica, a cui tutti partecipano con uno strumento o semplicemente con la propria voce, per accompagnare il canto degli uccelli.
News York, Times Square, ore 7 del mattino. Il traffico si ferma e per tutta la giornata la piazza più caotica della città si trasforma in una immensa distesa di tappettini colorati dove centinaia di persone in un silenzio irreale si fermano a fare meditazione yoga per salutare il sole.
Base Concordia, Antartide, 21 giugno. Inizia la settimana di festa per il Mid Winter. Tutte le basi si fermano per festeggiare e si scambino auguri via radio o via e-mail.
Bretagna, notte del 23 giugno. In cima alle colline vengono accesi falò e subito dopo altri falò si accendono in tutte le vallate.
Dreamland, Piemonte. Nel grande cerchio di pietre le tre torce di un candeliere a tre braccia fatto di rami di betulla vengono accese secondo l’antica formula druidica: Shali, Atabi, Sharka. Pace, Libertà, Conoscenza.
Nello stesso periodo, in molti paesi italiani ed europei si celebra la festa di San Giovanni coincidente con il periodo del solstizio d’estate. La ricorrenza è celebrata con una serie di eventi che si susseguono giorno e notte e durano anche alcuni giorni. Vengono anche accesi grandi falò, i cosiddetti “fuochi di San Giovanni”.
Sempre in questo periodo, grandi festeggiamenti per san Giovanni si celebrano anche nel Quebec, in Croazia, in Brasile, in Bulgaria.
Potremmo continuare all’infinito.
Ma perchè festeggiare con tali celebrazioni, tanto sentite e partecipate, un momento dell’anno che oggi, nell’era di internet e della globalizzazione, non ha apparente significato?
In astronomia, il solstizio è definito l’istante ed il punto in cui il Sole si trova alla massima distanza dall’equatore celeste: è massima anche la differenza tra la durata del giorno, con il massimo di ore di luce (solstizio d’estate) e quella della notte, con il minimo di ore di luce (solstizio d’inverno).
Quindi, essendo il Solstizio d’Estate il giorno più lungo dell’anno, si potrebbe pensare che si festeggi il Sole per via della massima durata della luce diurna in quel giorno. Ma a parte il fatto che questo poteva valere in un’epoca in cui non era ancora stata scoperta la luce elettrica, questa spiegazione non regge se si pensa che il suo opposto, cioè il Solstizio d’Inverno, è altrettanto celebrato, se non addirittura anche di più.
Il Solstizio d’Estate è celebrato da tempi remoti, ed è chiaramente una celebrazione pagana.
I Celti celebravano i Solstizi nei grandi cerchi di pietre, dove i druidi officiavano le loro cerimonie. Momenti di incontro e di silenzio. Nelle tradizioni celtiche, così come i quelle di tutti i Popoli nativi, la Natura era una grande maestra, il massimo riferimento spirituale. Le manifestazioni della Natura, in tutti i suoi aspetti sia fisici che immateriali, erano pertanto un continuo insegnamento per gli uomini. Non c’è da stupirsi che popoli che si rivolgevano alla Natura come unico tramite con il trascendente celebrassero i momenti salienti dei moti dell’astro da cui dipendiamo e la relazione con il pianeta su cui poggiamo i piedi. La consapevolezza di essere figli di Madre Terra e la sensazione di vivere tra terra e cielo, probabilmente accompagnava costantemente i nostri antichi progenitori, così come accompagna tuttora i membri delle società dei Popoli naturali.
Non c’è bisogno di essere degli astronomi per accorgersi che viviamo su una palla che rotea in uno spazio infinito, e di avere sopra la nostra testa un tappeto di stelle e galassie. Ma nella società maggioritaria tutto questo non conta: gli orizzonti percettivi si sono ristretti nei limiti della quotidianità che impone ritmi e valori; tutto il resto è astrazione.
Se anticamente poteva avere senso festeggiare i Solstizi, quando ancora le grandi religioni non avevano soppiantato i culti precedenti basati sul rapporto con la Natura, c’è da chiedersi che senso ha festeggiarli oggi.
Eppure nel periodo intorno al 21 giugno tutto il mondo si ferma per celebrare il Sole. Così come nel periodo che sta attorno al 21 dicembre in tutto il mondo si festeggia il Solstizio d’Inverno.
Le antiche tradizioni sono dure a morire, e la religione deve adeguarsi. Corre ai ripari trasformando il Solstizio d’Estate nella festa di San Giovanni; o il Solstizio d’Inverno nella nascita di Cristo.
Oppure organizzando celebrazioni religiose in occasione dei Solstizi. Come avviene a Calimera, in provincia di Lecce, dove il 21 giugno si celebra una festa di evidenti origini pagane, in cui tutto il paese si addobba con lanterne di carta che riproducono gli astri, i soli e i pianeti, per accompagnare la processione. Uno strano pellegrinaggio che ha per meta la cappella di San Vito, dove proprio davanti all’altare è posato un grande masso forato, un mên-an-tol preistorico, che i pellegrini a turno attraversano per compiere un rito di purificazione.
Inca, Yoko Ono, duidi, leccesi... tutti uniti nel festeggiare il Sole.

mercoledì 15 giugno 2011

IL MUSINÉ TRA STORIA, TRADIZIONE, UFO E VIAGGI NEL TEMPO

Le montagne sono sempre state rivestite di miti e leggende. Già nell’antichità, con la sua forma protesa verso il cielo, il monte era visto come il simbolo di una elevazione spirituale che si protendeva verso l’Assoluto.
Presso i cinesi c'era la credenza che vi fossero cinque vette sacre, nel nord, sud, est, ovest e centro della Cina, collegate direttamente al paradiso. Grazie alla loro speciale energia si pensava che le montagne nutrissero erbe e funghi magici usati per elisir d'immortalità ed erano considerate luoghi ideale per il ritiro e la meditazione.
In quasi tutte le tradizioni il monte, per la sua altezza e il mistero di cui è circondato, è ritenuto il punto in cui il cielo incontra la terra. Ogni cultura ha il suo monte sacro, dove abitano le divinità che custodiscono le tradizioni ancestrali. Fin dai tempi più remoti, in quasi tutte le civiltà si credeva che l’altitudine possedesse attributi sacri, che i territori superiori fossero saturi di energia spirituale.
La montagna veniva associata al trascendente, simbolo della presenza del sacro e dell’ascesi individuale.
Presso i Popoli nativi le montagne sono la dimora delle loro divinità. Con nomi diversi ma con similitudini nei significati, le montagne per i Nativi sono i luoghi che custodiscono segreti ancestrali ed esseri che proteggono le loro tradizioni. Riferimenti spirituali e dispensatori di energia terapeutica.
Dzill Nchaa Si’An, la montagna sacra degli Apache dell’Arizona, è la dimora del messaggero spirituale Apache Ga’an. Ngog Lituba, la montagna sacra del Popolo Bassa del Camerun, custodisce i segreti delle tradizioni africane.  Gli indiani Hopi credono che le loro divinità, i Katchina, dimorino nel cuore di  St. Francisco Peak. E così via.
Anche l’Europa non sfugge a queste tradizioni, e sono numerosissime le vette ammantate di attributi sacri e misteriosi, come  il Croagh Patrick in Irlanda o il Ben Nevis scozzese.
Nella valle di Susa, in Piemonte, esistono due monti particolarmente riconosciuti come “sacri” per via di tutte le leggende e le tradizioni ad essi associate: il monte Rocciamelone e il monte Musiné. Il Rocciamelone si porta dietro un nome celtico con cui ancora oggi viene identificato dalle culture autoctone: Roc Maol. La montagna oggigiorno è tristemente venuta alla ribalta delle cronache per via del discusso progetto TAV (Treno ad Alta Velocità), che ha fatto insorgere la popolazione locale la quale ha creato il vastissimo movimento NO-TAV,  per contrastare quella che viene considerata una profanazione e una decisione antidemocratica che non tiene conto delle esigenze e delle ragioni degli abitanti.
Il monte Musiné, l’altra montagna sacra della valle di Susa, è da molti anni al centro di credenze, superstizioni, culti, avvistamenti UFO. Il fatto di essere stato adottato come luogo di ritrovo per gli occultisti del territorio ha creato confusione sulle origini delle sue tradizioni, e non sempre è facile distinguere ciò che ha un valore reale dalle mistificazioni.
Andando a ritroso nel tempo, scopriamo che il Musiné in epoche remote, oltre 50 milioni di anni fa, probabilmente doveva essere un vulcano attivo.
Nel neolitico la valle intera e il Musiné erano popolati da tribù sparse e famiglie nomadi. Sono state trovate tracce di insediamenti celtici del secondo millennio a.C.  e le indagini archeologiche hanno segnalato il Musiné come area di presenze pre e protostoriche: in territorio di Caselette, il paese ai piedi del monte, vi sono tracce di una capanna di fine Età del Bronzo Antico (circa 1700 a.C.)
Nel territorio di Almese, altro paesino alle pendici del Musiné, sono stati ritrovati numerosi reperti preistorici e un probabile sito rituale in un punto poco sotto la vetta del monte.
Visto il tipo di reperti, la datazione e l’origine dei nomi dei paesi della zona, sembra evidente che tutto il territorio fosse anticamente abitato da insediamenti celtici. Il nome Caselette, ad esempio, è una desinenza celtica, così come per molti altri paesi della zona.
Le origini del nome Musiné sono incerte. La tesi più accreditata è che si tratti di una contrazione dal medievale “mons vicinea” (montagna del villaggio) perché era presso un villaggio.
Almeno da età medievale (ma forse già da epoca romana) il Musiné ha rappresentato per le comunità insediate ai suoi piedi un "territorio di usi comuni" quale segnalato dal suo stesso nome: preziosa riserva di legname, terreno da pascolo, luogo di raccolta di frutti selvatici, erba e fogliame; il tutto non come proprietà privata ma come terra comune.
Per secoli il pascolo e la raccolta di erba e foglie fu un diritto di uso civico che la comunità di Caselette cercò sempre di tutelare. Dalla montagna si raccoglievano le acque delle fontane, che erano incanalate ad alimentare il paese.
La cava di opale, alle pendici del Musiné, è sempre stata tra le più ambite per i ricercatori e gli appassionati. Il minerale, considerato sacro da molti popoli nativi (tra cui gli aborigeni australiani) ha certamente contribuito ad alimentare la fama di montagna sacra.
Il monte Musiné è ricco di reperti megalitici, altro particolare che indica non solo l’insediamento celtico della zona ma anche la sacralità attribuita al monte. Infatti la montagna è disseminata di numerosissime “coppelle” preistoriche, scavate nella roccia, tipiche dei luoghi usati dagli antichi druidi per cerimonie rituali.
Le coppelle del Musiné si trovano facilmente inerpicandosi sul ripido sentiero che porta alla cima. Su alcune rocce ne sono state contate fino a 70. C’è chi ha interpretato i disegni formati dalle coppelle come la rappresentazione delle costellazioni visibili nel cielo boreale.
All’inizio del sentiero si può trovare il “seme di mela”, un menhir di notevoli dimensioni che presenta una lavorazione artificiale.
Un altro menhir si trova a metà del sentiero che porta alla cima. Su questo menhir sono incisi dei graffiti preistorici con disegni che possono ricordare degli astri nel cielo o addirittura dei veicoli spaziali. Disegni che ricordano altri graffiti preistorici, come quelli della Valcamonica o del monte Bego nella valle delle Meraviglie, o i graffiti degli aborigeni australiani e dei Nativi americani.
Sulla stele, ancora ben visibile e raggiungibile su uno dei sentieri che si aggrovigliano lungo le pendici del monte, sono impressi graffiti, simboli e oggetti: al centro è inciso quello che sembra un monte, alla sua sinistra un cerchio che sembra rappresentare il Sole e poco più a destra un oggetto discoidale che ricorda un UFO, sospeso nell’aria. Alla base, cinque sagome stilizzate. Lo scrittore e ricercatore Peter Kolosimo avanzò l’ipotesi che il disegno riproducesse un incontro ravvicinato con un velivolo spaziale da parte degli abitanti della valle.
Questo menhir è stato oggetto di discussioni sulla sua autenticità da quando la rivista Famiglia Cristiana, nel n. 13 del 1988, affermò che si trattava di “un falso degli anni Settanta, di esecuzione contemporanea e goliardica”. Il “Gruppo Ricerche Cultura Montana” ha sostenuto questa tesi, riprendendo l’affermazione di Famiglia Cristiana, senza tuttavia procedere a nessuno studio sul reperto.
Tuttavia i ricercatori indipendenti sostengono che sia evidente la differenza tra i graffiti “recenti” e quelli preistorici, e tendono ad annoverare il menhir tra i reperti preistorici autentici.
Molti altri megaliti sono disseminati sul monte Musiné, da menhir a rocce coppellate. Alcuni di questi sono contrassegnati da segni e tracce di ceri che fanno dedurre che il luogo sia tuttora usato per cerimonie pagane.
Il Musiné è uno dei monti più ammantati di credenze e misteri. Da sempre circolano voci di lupi mannari, di immagini spettrali che vagano nella penombra, di strani animali. Vi sarebbe una grotta nella quale, ogni primo maggio, si darebbero appuntamento streghe, maghi, e licantropi per i loro riti.
In alcuni scritti del ‘600 e ‘700 si racconta che la vallata fu spesso percorsa da “musiche demoniache”, accompagnate da urla angosciose cariche di dolore. Una antica leggenda vuole che il re Erode fosse esiliato su questa montagna, come punizione per la strage degli innocenti.
Secondo alcuni storici fu proprio in questa zona che in cielo apparvero a Costantino la croce fiammeggiante e la scritta “in hoc signo vinces”.
Stando a quanto dichiarato da molti, il luogo sarebbe un gigantesco catalizzatore di energie benefiche. Secondo altri sarebbe addirittura una sorta di “finestra” aperta su un’altra dimensione. Si parla anche di portali per viaggiatori del tempo, e i sostenitori di questa tesi portano le testimonianze di chi asserisce di aver visto strani personaggi, vestiti con abiti non appartenenti alla nostra cultura, aggirarsi per il monte.
Altri affermano di incontrare periodicamente degli uomini sempre identici nonostante il passare degli anni, vestiti sempre allo stesso modo, con abiti leggeri sia d’estate che in pieno inverno.
Il sito amplificherebbe, nel momento in cui vi si sosta, le facoltà extrasensoriali che ognuno di noi possiede, ma che solo in particolari circostanze risultano evidenti. Gli stessi rabdomanti hanno dichiarato che, in prossimità del monte, bacchette e pendolini si muovono in modo molto più accentuato del normale. Altri testimoni sostengono che le bussole, in determinate zone del Musiné, impazziscono e gli orologi smettono di funzionare.
Da sempre la zona è teatro di apparizioni di misteriosi bagliori azzurri, verdastri e fluorescenti. Queste apparizioni hanno fatto la loro comparsa fin dal lontano 966 d.C. All’epoca il vescovo Amicone si trovava in val di Susa per consacrare la chiesa di San Michele sul monte Pirchiano, di fronte al Musiné. Durante la notte, in attesa dell’arrivo dell’alto prelato, i valligiani assistettero a uno spettacolo affascinante ma pauroso al contempo: il cielo fu percorso da travi e globi di fuoco che illuminarono la chiesa come se fosse scoppiato un incendio.
Altre storie parlano di carri di fuoco che spesso sorvolavano la vetta.
E’ stato anche affermato che ai piedi del Musiné esisterebbe un “cono d’ombra” cioè una zona di interferenza che oscura qualsiasi trasmissione radio. Anche gli aerei privati che si trovano a sorvolare il luogo  vengono disturbati nelle loro trasmissioni radio. Questi problemi cessano nel momento in cui ci si allontana dalla montagna.
Il monte, essendo un antico vulcano spento da millenni, è ricco di gallerie e passaggi irregolari scavati dallo scorrere dell’antico magma, in gran parte però inesplorati. Questo fatto ha contribuito a creare il mito delle caverne abitate da strani esseri, i quali vi abiterebbero tuttora, fin dall’antichità.
Misteriosa è anche la distribuzione della vegetazione, particolarmente ricca ai piedi del monte, ma che poi si dirada in modo quasi repentino col crescere dell’altitudine. La Forestale ha  inutilmente speso ingenti somme di denaro per rimboscare la zona, nella quale le giovani piante sembrano morire una dopo l’altra. La credenza popolare spiega il mistero con la processione continua di anime dannate che salgono e scendono il monte senza sosta. Secondo una credenza un po’ più moderna sarebbero le emanazioni radioattive di una base segreta a produrre tale sterilità.Innumerevoli sono le testimonianze di avvistamenti di oggetti volanti non identificati, sia notturni che diurni. Numerosi testimoni ricordano inoltre le apparizioni sulla sommità di globi sferici fiammeggianti. Si racconta di strane luci avvistate nel cielo, attribuite dagli ufologi ad a visitatori alieni; questo ha portato a credere che il monte sia meta di extraterrestri. Campioni di terra bruciata testimonierebbero il passaggio di astronavi avvistate da alcuni contadini locali.
L’8 dicembre 1978 due giovani escursionisti vedono sul monte Musiné una luce bianca accecante sopra gli alberi. Uno dei due si avvicina, scomparendo alla vista del compagno, mentre la luce si alza in cielo; l'amico comincia allora a cercarlo e incrocia altri escursionisti. Tutti si sparpagliano a ventaglio per cercare il primo. Lo trovano svenuto, infreddolito, incapace di tollerare la luce ed in evidente stato di shock, con il battito cardiaco irregolare. Il ragazzo è come in trance e si sveglia solo dopo molti tentativi. Dopo l'esperienza, i due testimoni soffriranno di congiuntivite. Il rapito ha una cicatrice sulla gamba e ricorda di essersi avvicinato all'UFO, che aveva forma di pera e che in quell'istante era diventato più grande. Erano comparsi 3-4 uomini con la testa "a melone", che si stagliavano tenebrosamente nella luce. L'uomo si sentì paralizzato e fu in grado di avvertire solo luci e suoni, sentendosi inoltre toccato e sollevato.
L'8 marzo 1996 un oggetto luminoso veniva osservato per oltre un quarto d'ora da due escursionisti mentre scendevano dal monte Musiné. Secondo il racconto dei due testimoni, l'oggetto aveva una forma simile a un cilindro dai riflessi giallo-verdi con le estremità arrotondate e sembrava sostenersi, oscillando leggermente, su un cuscino di luce bianco-gialla. Alle estremità dell'oggetto c'erano due grosse calotte trasparenti attraverso le quali si intravedevano muoversi delle sagome apparentemente umanoidi.
Una leggenda legata a questa montagna è quella della caverna del Mago. Le tradizioni valligiane narrano che in una grotta posta nel cuore del Musiné vivrebbe un mago che si era nascosto per compiere indisturbato i suoi esperimenti con gli strumenti rimasti della mitica città di Rama. A difesa del luogo ci sarebbe un enorme dragone tutto d’oro pronto a distruggere con il suo fiato infuocato ogni intruso che tentasse di avventurarsi all’interno delle grande caverna. In una piccola cripta esisterebbe uno smeraldo di immenso valore mistico, grande quanto il pugno di una mano d’adulto, da cui si diffonde una intensa e limpidissima luce verde che illumina tutto intorno. La leggenda riporta che un signorotto del luogo, un certo Gualtiero, cercò di penetrarvi con degli uomini armati per appropriarsi dei tesori che sarebbero stati nascosti in questa caverna.
Entrarono in una sala illuminata dove sembrava che la luce venisse emanata dalle pareti stesse. Trovarono il mago seduto davanti ad una fontana d'acqua che sgorgava dalla roccia. Il mago invitò gli intrusi a guardare nell'acqua del laghetto che all’improvviso divenne lattea e mostrò delle immagini che andavano formandosi.
Gualtiero e i suoi armati videro così apparire in sequenza soldati con armature che si combattevano, soldati vestiti solo con abiti blu e cappelli a tricorno che sciamavano con archibugi in pugno, quindi grandi uccelli di metallo che lasciavano cadere oggetti che distruggevano una grande città e infine bruchi metallici che si muovevano tra le rovine della stessa città.
Gli intrusi, terrorizzati per quello che avevano visto, fuggirono dalla grotta. Ebbero modo di vedere dietro di loro il mago che saliva verso il cielo scortato da due grifoni in un rumore assordante. Poi dei massi caddero dall’alto della montagna e chiusero l’ingresso della grotta che non verrà mai più ritrovata.
C’è un’altra leggenda legata alla zona del Musiné, che viene ancora oggi tramandata dalle popolazioni autoctone: la leggenda di Rama. 
Le antiche cronache della valle di Susa riportano l'esistenza in epoche remote della città ciclopica di Rama che dalle descrizioni sembrerebbe assomigliare alle città delle fortezze megalitiche peruviane e dell'Oceania. Le leggende dei secoli successivi aggiungono che questa mitica città era il luogo dove veniva conservato il Graal.
La città di Rama rappresenta un importante mito dei primi abitanti dell'Europa: una città megalitica situata in Piemonte che secondo la leggenda sarebbe all'origine della tradizione celtica dell'Europa e custodirebbe il segreto del Graal.
L'antica leggenda si riferisce al mito della caduta di Fetonte. Narra di un dio disceso dal cielo che si avvaleva dell'aiuto di assistenti di metallo dorato. Durante la sua permanenza tra gli uomini insegnò loro l'arte dell'Alchimia e della fusione dei metalli. In seguito provvide a fondere una grande ruota d'oro forata, ricavandola dal metallo del carro divino con cui trasmettere la sua conoscenza all'umanità. Quando il dio ritornò in cielo lasciò uno dei suoi aiutanti dorati che assistesse gli uomini che avevano raccolto i suoi insegnamenti.
Le leggende riportano che una delle proprietà della creatura di metallo dorato era quella di assumere varie forme a suo piacimento. Una sua traccia è collegabile alla leggenda della caverna del drago, all'interno del monte Musiné, in cui questa creatura "mutaforma", con l'aspetto di un grande drago d'oro, proteggeva una luminosa gemma verde dagli immensi poteri.
Il mito della città di Rama è sopravvissuto ai secoli per via delle tradizioni orali del druidismo locale e grazie ai ricercatori di inizio secolo che hanno raccolto dati di prima mano e conferme documentate della sua esistenza.
E’ difficile fare luce sulle credenze legate al monte Musiné, e sulla validità di tutto il folklore che si è creato, nel tempo, attorno a questa montagna.
Le impressioni rimangono necessariamente personali, basate sulla sperimentazione diretta.
Passeggiando per il “pian delle masche”, il grande pianoro alla base del monte, si ha l’impressione di non essere mai completamente soli. Il silenzio che si respira in quel punto particolare avvolge tutti coloro che vi si recano. Il “pian delle masche” è un luogo che secondo le tradizioni locali un tempo era ritrovo di maghi e “streghe”, appunto le masche. Va precisato che le “masche” erano una categoria di sciamani locali, sia donne che uomini. Il nome è stato trasformato in un termine negativo dalla religione subentrata alla cultura druidica. Era necessario trasformare queste sciamane guaritrici in qualcosa di estremamente negativo, per giustificare i roghi in cui vennero bruciate dall’Inquisizione migliaia e migliaia di “streghe”.
Il pian delle masche, e le radure nei suoi pressi, sono ancora oggi ritrovo di personaggi strani, cultori di esoterismo, occultisti, e molti altri personaggi di difficile catalogazione. C’è chi ha voluto vedere in quel pianoro anche un ritrovo per viaggiatori del tempo o un portale aperto su altre dimensioni.
Tradizioni, leggende, fatti strani, tutto si mescola senza un confine preciso.
E se per una volta proviamo a smettere di misurare tutto con la razionalità, forse riusciamo a cogliere il vero spirito del monte Musiné.