Provengo da una famiglia di cacciatori.
Padre cacciatore, nonno cacciatore, zii cacciatori, fratelli cacciatori.
Tradizione di famiglia, dicevano.
Un mezzo per socializzare, per tenere la famiglia unita, diceva mia madre.
Una occasione per stare all’aria aperta, a contatto con la natura, per fare un po’ di moto e tenersi in forma, diceva mio padre.
Sono cresciuta vedendo arrivare in casa corpicini martoriati, alle volte alcuni ancora agonizzanti.
A tutti sembrava la cosa più normale del mondo. Le riunioni di famiglia erano incentrate sui racconti di caccia e sui discorsi dei maschi, tipo “quanti tordi hai preso?”... “e beccacce ne hai viste?”... e così via. Le conversazioni vertevano dai richiami da caccia, a come addestrare i cani, agli aneddoti su come riuscivano a “fregare” le loro prede.
Nonostante non avessi mai sentito parlare di animalismo, mi sentivo un’aliena. Non capivo come si potesse gioire nel vedere quegli esseri privati della loro vita, per giunta in maniera così cruenta e con l’inganno dei falsi richiami.
Oggi mi viene da pensare che soltanto una grande ignoranza poteva giustificare un comportamento del genere, per giunta così diseducativo verso i figli.
La caccia tradizione di famiglia? Probabilmente è quello che dicono anche quelle etnie che praticano ancora oggi il cannibalismo. Ma quando le tradizioni sono abominevoli, non sarebbe il caso di prendere in considerazione l’idea di civilizzarsi un po’? Non siamo più all’età della pietra!
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